Diario di scuola VII – Se il mondo fosse una scacchiera

Alessandra Avanzini

Questa è la scienza: un’esplorazione di nuovi modi di pensare il mondo.

È la capacità che abbiamo di rimettere costantemente in discussione i nostri concetti.

È la forza visionaria del pensiero ribelle e critico capace di modificare le sue stesse basi concettuali, capace di ridisegnare il mondo da zero.

Carlo Rovelli

Se il mondo fosse una scacchiera

Mi hanno colpito queste parole, scritte qui in esergo. Perché l’uomo è inquieto, quando è uomo davvero. Non si accontenta. Cerca sempre, come se non potesse mai fermarsi di fronte ad un paesaggio che forse è bello da guardare, ma non riesce a spiegarci il suo mistero. È tranquillizzante, se non ci poniamo domande. Un po’ abbiamo voglia di svelarlo questo mistero, un po’ vorremmo lasciarlo lì come è. E questa sottile inquietudine è forse anche un po’ una maledizione, un tormento. Una cosa soltanto sembra certa, che comunque il mistero non sarà mai pienamente svelato. Per quanto ci diamo da fare a cercare, riorganizzare ordine tra mille tracce confuse e caotiche, tracce di uomini che hanno vissuto come noi e come noi sono stati inquieti, per quanto le riorganizziamo, il mistero rimane. Per quanto inseguiamo il mondo dell’allievo seduto, coricato, saltellante al suo banco, mai riusciremo a capirlo veramente.

Stavo per dire, ad aiutarlo. Poi qualcosa mi ha fermato. Che presunzione. Alla fine, me ne rendo conto, è il mio allievo che aiuta me. Mi dà un motivo per pensare, riorganizzare le mie idee e modificarle. Mi carica di idee, aspettative e speranze, di nervosismo e di soddisfazione. È forse questa una delle cose più suggestive della relazione educativa, che ti insegna che la conoscenza è prima di tutto una trasformazione di ciò che sei. Non ne esci immune, quando sei entrato in quel magico mondo che è l’apertura a qualcosa che prima non conoscevi, non sei già più lo stesso, c’è qualcosa in te che si è mosso, si è disarmonizzato, si è rimesso in discussione. La conoscenza non accetta stabilità, insegue uno stato precario e corre sempre verso qualcosa d’altro. È la più alta espressione del mistero che siamo, come uomini.

Non tutti ne sentono il bisogno, e forse quelli che non lo sentono, quelli che non cercano più, sono apparentemente più felici. A volte mi pare che crescendo gli uomini costruiscano una sorta di doppio fondo, come può esserci in un cassetto, o in una valigia, e nascondono lì dentro, pressandoli bene, tutti i desideri cui hanno rinunciato, convinti che era la cosa giusta. Convinti che la spiegazione ci sia già, che le cose sono proprio così come le abbiamo pensate, che ad un certo punto sia necessario fermarsi.

Eppure quando guardo un paesaggio in montagna, capisco il bisogno che l’uomo ha di aprire quel doppio fondo e continuare a percorrere la sua strada – lo sguardo scientifico è questo. Non la pidocchiosa ricerca di mille tracce, da mettere insieme e mostrare e spiegare in modo filologico; lo sguardo scientifico prende quelle tracce e quasi le travolge con un vento che le scompiglia ma poi dà loro una direzione, che magari è tutta sbagliata, ma ti è servita per aprirti lo sguardo e il cuore, ti ha commosso e ti ha fatto sentire che quel paesaggio è bello; bello perché è diventato parte di te. Chi lo analizza in modo distaccato lontano, e in apparenza corretto, seguendo tutte le regole, ha cancellato il paesaggio dal proprio sguardo e ha rinunciato alla ricerca. E magari ha scritto un forbito libro di 300 pagine. Ma non ha capito, non ha compreso, perché non si è modificato insieme a lui.

Forse non esiste niente di tutto quello che pensiamo e forse le nostre spiegazioni scientifiche sono delle assurdità, ma se in qualche modo permettono di farci sentire dentro al mondo e il mondo in noi, siamo sulla strada giusta, sulla strada di quella responsabilità dinamica che ci regala senso e motivazione, senza ingessare i nostri passi in rigide ottusità. E forse non dobbiamo aspettarci che ci faccia stare bene, perché inizialmente uno sguardo che si rinnova, fa stare male. E abbiamo voglia di tornare indietro, a quelle sicurezze che ci facevano sentire come se nulla potesse più cambiare, tranquilli, a posto. Un po’ come capita agli uomini incatenati dentro la caverna platonica, il loro non sapere che tutto ciò che vedono in realtà non ha consistenza, che sono solo ombre, li fa stare bene, in una forma di felicità che non si pone domande, e niente vacilla, niente si smuove, tutto scorre tranquillo davanti ai loro occhi. Di essere in gabbia, non se ne rendono conto. E se qualcuno prova a smuoverli, a fargli capire che è solo un inganno, una trappola, lo odiano e lo ucciderebbero se potessero. Non vogliono cambiare, non vogliono vedere il sole. Credono di amare le loro ombre, perché le sentono vere. Forse va bene anche così. O forse no. Lo sguardo scientifico è inquieto e di questo non sa accontentarsi.

Eppure, resto convinta che quando riusciamo a vedere quel sole, anche solo per un attimo, poi magari di nuovo si oscura, quella sia la vera forma di felicità.

Era cerfuoso e i viviscidi tuoppi

Ghiarivan foracchiando nel pedano.

Stavano tutti mifri i vilosnuppi,

mentre squoltian i momi radi invano”

Che parole assurde, queste del Ciciarampa, eppure la struttura della frase ha senso, pur non volendo dire niente assolutamente niente. Quante volte l’ipocrisia di parole che non rimandano a nessuna sincera visione del mondo siamo costretti ad ascoltare come se fossero parole guida, da ascoltare perché questo è l’ordine del mondo. L’ordine e il senso delle cose emerge quando alle parole sappiamo dare un valore che non può che trasformarsi continuamente, e a trasformarlo deve essere chi usa quelle parole e le fa autenticamente sue. Che non significa voler capire filologicamente quelle parole, se non vogliamo rimanere intrappolati dentro una ricerca arida, disumanizzante, ma significa costruire per loro una prospettiva, metterle davanti ad uno specchio e vedere se funziona, e se non funziona, spingerci dentro alla nostra logica, al nostro modo di pensare e trasformarla. Così fa la piccola Alice.

E come si può fare, a trasformare questa logica, a fare nostre quelle parole senza percorrere strade ipocrite e vuote, ma apparentemente così rassicuranti, strade che ci ingannano lasciandoci pensare che abbiamo raggiunto un equilibrio?

Quando Alice è nel mondo dello Specchio, il caos, il disordine la travolge… finché non intuisce che il disordine è solo una forma sconosciuta di ordine una forma che per lei è ancora mistero. Le cose vanno decisamente meglio quando, guardandosi intorno, qualcosa in lei si muove e viene da lei usato per dare un senso a ciò che vede, per riorganizzarlo usando se stessa, il proprio mondo, la propria realtà codificata, e osservando ciò che non conosce mette in gioco tutto, i codici che credeva di padroneggiare, i codici che ancora non comprende. Si guarda intorno dicevo e le viene questa intuizione “Parola mia, è fatta in modo da assomigliare a un’enorme scacchiera! … Mancano solo degli uomini che si muovano in su e in giù – ma ci sono!”… il cuore prese a batterle per l’eccitazione “È un’enorme partita a scacchi quella che stanno giocando – sopra il mondo intero – ammesso che questo sia il mondo, naturalmente”.

Non che tutto sia certo dentro di lei, ma ha trovato un codice per decifrare, comprendere, dare senso: la scacchiera. E su questa idea, sì, ora può andare avanti, ora può smetterla di girare a vuoto e muoversi come un burattino cercando di imitare goffamente regole non sue. È veramente così? È veramente una scacchiera il mondo in cui è stata catapultata e una partita a scacchi quella che sta giocando? Forse no, forse non è niente di tutto questo. Fatto sta che, ipotizzando di essere dentro a questo gioco, che Alice conosce, la bambina ne diventa protagonista attiva, ne conosce le regole e si mette in relazione con gli altri, magari gli altri stanno giocando un altro gioco; ma l’idea funziona, la comunicazione è attivata. E questo è l’aspetto straordinario e magico. Che funziona. E permette l’incontro tra Alice e gli altri. Permette una relazione e una crescita. Perché Alice legge il mondo interpretandolo, gli dà una direzione e coinvolge chiunque sia dentro a quel mondo. Alice ha trovato una via per svelare un mistero che le sfugge sempre un po’, ma almeno adesso può provare a entrarci dentro, con uno sguardo che deve rimanere incantato e dinamico se non vuole essere mangiato da un paradosso – ingessarsi nell’ottusità di chi crede di aver trovato la verità, l’equilibrio, la sicurezza.

Alice è in movimento, con autenticità ed entusiasmo, ma le cose non sempre tornano, e sarà sempre il suo sguardo attivo a costruire per lei la strada più sincera. Che non spiega, forse, ma coinvolge, illumina, trasforma, regala significato.

Era cerfuoso e i viviscidi tuoppi

Ghiarivan foracchiando nel pedano.

Stavano tutti mifri i vilosnuppi,

mentre squoltian i momi radi invano

L. Carroll, Attraverso lo specchio. E cosa Alice vi trovò

De’ remi facemmo ali al folle volo.

E così a me capita a scuola. Cerco sempre, mi sembra di frugare dentro questo possibile incontro con i ragazzi per andare a scoprire tutte le strade possibili, per percorrere insieme una strada non sempre semplice, per trovare il gioco anche in ciò che troppe volte viene visto con eccesso di ansia e sentito come un mondo lontano ed estraneo.

Come la Divina Commedia. Dante a dire il vero di solito piace, o meglio, affascina la storia, piace sentire quando lo si legge, ma quando lo si deve studiare, parafrasare, spiegare, incorniciare dentro al periodo storico… quanto diventa noioso allora Dante! E non lo amano più, o forse un po’, però imparano forzate interpretazioni, si sforzano di essere all’altezza, ma lo vedi quasi senza nemmeno ascoltarli che stanno usando parole non loro. Allora cosa dobbiamo fare? Insistere, farli soffrire perché lo studio, la scuola è anche questo?

Non so, io ci ho pensato tanto e più ci penso più la mia idea è che la scuola e lo studio devono essere una gioia, devono essere un divertimento, magari un po’ faticoso in certi momenti, ma comunque non devono mai diventare qualcosa di cui ti sfugge il senso complessivo. Uno studente non deve mai trovarsi ad essere nella scuola come un operaio in una catena di montaggio. Deve poter abbracciare il progetto ideale che guida il docente nel suo agire, devono vedere che c’è qualcosa che va oltre la singola lezioncina. Devono sentire che ha senso farlo anche se a volte è un po’ stancante. Anche se a volte non si vedono subito i risultati, anche se a volte il docente è così noioso che ti richiede di fare e rifare le stesse cose perché diventino sempre migliori, sempre più belle.

Per come la vedo io, se i ragazzi si trovano con parole che a loro suonano come quelle del Ciciarampa, non è giusto dare, imporre loro una lettura univoca, la lettura dei critici, e chiedere di fidarsi; al contrario, devono poterci ricamare sopra, divertirsi, spingersi a trovare una loro visione, un loro senso. Che magari è tutto sbagliato, ma è una loro conquista.

Per aiutarli in questo a me piace farli entrare nei testi, farli giocare con i testi; poi provo a parlare, a sentire come li capiscono, provo a dare la mia visione, e quindi chiedo loro di fare un po’ come faccio io, e spingersi dentro la storia. Ma a volte non ha nemmeno senso dare tante interpretazioni, a volte una storia va solo ascoltata, apprezzata, amata. E rimane parte di te, e svolgerà il suo ruolo nel tempo, venendoti in aiuto quando meno te lo aspetti, come se fosse stata vita vissuta, esperienza concreta. Invece era ‘solo’ una storia.

Quest’anno sono ricapitata, dopo le convocazioni di settembre, nella mia prima scuola, il liceo artistico. Che bella scuola! Però i ragazzi, dopo tre anni, ovviamente non sono più quelli; e poi questo è un anno strano, tra pandemia e dad procede a singhiozzi, e non perché non lavoriamo, ma perché lavoriamo con una fatica enorme. Abbiamo iniziato in presenza al 75%, poi ci hanno chiuso, poi siamo tornati al 50 o al 75 % non lo ricordo nemmeno più, poi chiusi di nuovo, poi tornati, con un orario che ora cambia ogni settimana…. Quindi conoscere classi nuove in questo modo non è immediato e tutto sommato mi pare che siamo stati bravi, però chiaramente le idee arrivano con più lentezza, perché quell’assurda abitudine di programmare a inizio anno, quando una classe la conosci appena, è fuori da ogni logica; le idee vengono quando hai il polso della situazione, quando cominci a capire come correre sulla stessa strada possibilmente (anche se c’è sempre qualcuno che improvvisamente sbuca da una stradina secondaria, ma se alla fine sbuca va bene così) e verso la stessa meta, l’idea arriva quando docenti e studenti sono davvero ‘insieme’ in classe. Ed è molto raro che possa capitare dal primo giorno. Anzi, qualche volta non capita mai, e quella è una vera sconfitta.

Così nel caos di un anno singhiozzante come questo, il polso delle classi l’ho avuto direi a gennaio, e piano piano mi sono venute le idee… Sono partita a dire il vero con una impostazione comune a tutte le classi, spingere sull’imparare a memoria, e soprattutto Dante; parti lunghe, trenta versi a volta. I ragazzi all’inizio scalpitano un po’, poi devo dire sono uscite anche bellissime interpretazioni. Qualche volta anche non così convenzionali. Una ragazza mi ha detto che era in difficoltà con la memoria e che avrebbe preferito cantare, dare un ritmo e una melodia ai versi, così da potersi aiutare… Certo, perché no?

E ha cantato per noi una mattina, i primi trenta versi del terzo canto, Per me si va… Devo dire che mi ha incantato e mi sono detta, con ancora più forza, perché no?

E così quando in occasione del Dantedì è saltata fuori da una docente questa idea, all’ultimo minuto, partecipiamo alla rassegna FuturaDante? ho detto, perché no? Il tempo a disposizione era pochissimo, cinque giorni. E volevo che tutti i ragazzi partecipassero, che fossero e si sentissero una classe, e sapevo che avrebbero potuto fare una bella cosa. Bisognava distribuire i compiti, senza forzare, e così ho provato a fare; naturalmente la cantante ha lavorato solo su quello, gli altri sui disegni. Abbiamo raccontato una piccola storia, unendo parti del terzo e parti del quinto canto. Con una idea: raccontare il disprezzo di Dante per chi non ha il coraggio di scegliere, di prendere posizione e vive una vita grigia, e la passione di un amore il cui prezzo viene pagato con la vita. Ma la passione e il coraggio ha regalato a queste anime, pur dannate, tutta la comprensione, la partecipazione di Dante, e il ricordo insieme alla commozione di tutti coloro che nel tempo rileggono la loro storia, e quei versi.

E la classe è stata straordinaria, li ho messi alla prova, e hanno reagito come classe e come singoli, avevo un po’ timore che qualcuno restasse escluso, invece sono stati tutti trainati dentro, e prodotto un video, da loro montato, che scorre su queste immagini che raccontano la storia insieme a una voce che cantando un gentile rap melodico ci propone un Dante così vicino a noi (la sezione è dell’indirizzo audiovisivi multimedia e anche il lavoro di montaggio è stato veramente bello).

Ma ho un’altra classe straordinaria, una quarta, divisa tra una parte audiovisivi multimedia e una parte di scenografia. Finito il video, avevo voglia di qualcosa che valorizzasse e desse a tutti la possibilità di rivedere e rileggere Dante in modo così libero, creativo. E mi è venuta l’idea di illustrare l’Inferno. No anzi di più, illustrarlo, raccontarlo a modo nostro, cantarlo e recitarlo: un libro multimediale, che sapesse intrecciare parola, immagine, suono, ritmo.

Così ho fatto un incontro pomeridiano per far conoscere le due classi, spiegare il progetto che avevo in mente, ho chiesto alla quarta di rinunciare al Purgatorio (di cui avevamo studiato i primi tre canti) e li ho buttati tutti nell’Inferno. So che è un po’ una follia a un mese dalla fine della scuola. Ma se in cinque giorni mi hanno fatto quel video, credo che in un mese ce la possiamo fare. Siamo dentro allo sforzo tutti insieme con il rischio di fallire ma il desiderio di riuscire.

E credo che ce la faremo.

Leggiamo e ascoltiamo canti di Dante che a scuola non si fanno mai, vado veloce, leggo, spiego, racconto, cerco di fare immaginare ciò che viene narrato; non mi interessa l’approccio filologico, voglio che Dante sia ascoltato come se fosse un romanzo, che racconta una bella storia. Nient’altro.

Certo fare un libro richiederebbe una mano sola, o mani molto coordinate. A coordinare sono io, ma le mani che lavorano sono tantissime e così diverse. Che fare? Selezionare? Ci ho pensato e ripensato e mi sono detta no, non seleziono nulla, spingo al massimo delle loro possibilità su quello che desiderano fare, sulle sfide che vogliono abbracciare.

Così abbiamo la nostra cantante che dovrebbe arrivare a dieci estratti da dieci canti. Poi abbiamo chi recita, chi disegna, chi scrive…. Ecco la scrittura. Insegnando italiano, questa è forse la parte che mi preoccupa di più; avevo una gran paura della scrittura – e sinceramente non mi è ancora passata, finché non vedrò il risultato finale. Perché scrivere è qualcosa di così intimo che come si fa a scrivere l’Inferno in quaranta mani differenti?

Allora mi ci sono messa dentro anche io, ho iniziato a raccontare immaginando una folla di aedi che prendono tra le mani la stessa storia e se la passano, continuando ognuno un nuovo episodio. Ho messo su teams i mei primi racconti, con uno stile veloce, un po’ spezzato e tipo flusso di coscienza, ho chiesto loro di sintonizzarsi e continuare. Ci stanno provando, io leggo, restituisco e poi se è necessario faccio rifare tutto. Finché non troviamo uno stile che possa essere armonico, che possa stare insieme, finché non troviamo un filo che sia un filo, che magari cambia colore ma che narra la stessa storia.

In tutte queste diversità, che siamo io e loro, c’è uno di loro in particolare che fa disegni straordinari, e si sente che li fa perché ama Dante; è uno studente certificato 104, ma quando vedi il modo con cui interpreta Dante, comprendi che ha capito quel canto, lo ha fatto suo, lo ha rielaborato e quindi ti regala in una generosità creativa incredibile la sua interpretazione, la sua creazione.

Sono molto contraria alla rigidità e all’appiattimento cui conducono queste certificazioni, che devono essere casomai una opportunità non uno sguardo paternalistico che impedisce il lavoro di docente e allievo; troppo spesso, per come ci viene chiesto di leggerle, mi sembra chiudano più che aprire possibilità, offendono le singole individualità, che non sono meno degli altri ma hanno una loro particolarità tutta da scoprire, proprio come gli altri. Questo progetto è qui a dimostrare anche questo.

Perché ci deve essere una certificazione che dice a me docente che quel ragazzo è autorizzato a fare di meno, che ha obiettivi minimi da raggiungere, perché non ce la fa? Ma chi l’ha detto? Con quale diritto entriamo a porre ufficialmente questi limiti alla comprensione e alla creatività dell’uomo? Vorrei indietro la mia libertà di docente di far cercare ad ognuno il massimo, la propria eccellenza, senza freni assurdi. E qui lo sto facendo, mi prendo questa libertà. E a dire il vero io un po’ me la prendo sempre, spingo sempre tutti al massimo che riesco.

Oggi è il primo maggio e abbiamo tra le mani circa dodici canti, tra le due classi, letti, in parte già illustrati. Non ci arrendiamo e continuiamo a buon ritmo, sapendo che abbiamo un immenso programma di storia e di letteratura da portare comunque avanti.

Però per me ne vale la pena, perdere qualche contenuto e nuotare dentro questi versi danteschi.

Forse i miei ragazzi non usciranno da quest’anno conoscendo le interpretazioni canoniche sui canti di Dante, e quelli di quarta non avranno scoperto che Virgilio una volta all’Eden se ne deve andare (cioè lo sanno ovviamente ma non lo hanno letto), e forse tante spiegazioni loro non le conosceranno, tante esegesi non arriveranno mai tra le loro mani. Però i versi di Dante sono entrati nella loro testa, nella loro immaginazione, perché hanno dovuto inseguire una interpretazione per illustrarli, raccontarli, cantarli, recitarli. Ho proposto anche una recitazione a canone e so che tra oggi e domani ci lavoreranno, mettendo insieme più forze.

E anche questo mi fa contenta, che si debbano incontrare per giocare con i versi di Dante.

Spero che porteremo tutto a termine e che qualcosa rimanga di questa avventura. A dire il vero, ne sono sicura. Anche solo il senso di aver viaggiato insieme un viaggio straordinariamente creativo, nostro, inimitabile, fuori da ogni rotta. Che ha saputo dare un senso a parole lontane.

Ma se qualcun altro ci vorrà provare, dovrà rifarlo a modo suo, non potrà ripercorrere le nostre tracce.

Non è un breviario quello che stiamo facendo, non è un bignami, non è una rilettura, non serve a niente; è solo un altro Dante, il nostro.

Ed è in questo modo che vorrei che i miei studenti viaggiassero poi tutti i loro altri viaggi culturali. Tutte le loro avventure. Un po’ come l’Ulisse dantesco.