Dateci tempo (non formazione)

Dateci tempo (non formazione)

Alessandra Avanzini

Sono al mio quinto anno di insegnamento nella scuola. Sono passata dal liceo, e ora, in anno di prova, per la prima volta, mi trovo in un istituto tecnico.

Prima per tanti anni ho insegnato in università, a ragazzi di corsi triennali e magistrali, e ai docenti, nei TFA.

Ed ora eccomi qui, a sentirmi dire, dopo tutto questo, un dottorato in pedagogia, un assegno in pedagogia, osservazioni, riflessioni, scritti, insegnamenti, dal ministro Bianchi che i docenti necessitano di essere continuamente formati.

Io vorrei assicurare al ministro Bianchi che la scuola è una palestra di fatica e di formazione: insegna, prima di tutto, a come imparare a difendersi, dalla scuola, dall’insegnamento, dagli altri docenti, e poi anche dai ragazzi, che in tutto questo caos ballano nel manico, come si dice.

Presi in mezzo da idee differenti, da approcci i più variegati, si gongolano nella loro ignoranza, reclamano il diritto ad essere protagonisti della scuola, a patto di non aprire un libro, piangono e chiamano lo psicologo se devono soffrire per una verifica, e quindi danno i voti ai prof.

Ma no, non è colpa loro.

E a me i ragazzi stanno simpatici.

E me la vedo io con loro, è una sfida che inizio ogni anno, e che so che sarà sempre nuova e senza fine.

Educare è una faccenda seria, e lunga.

Si può educare in vari modi, un po’ come si può curare una malattia: c’è il dottore, un po’ superficiale, che se gli dici ho il mal di testa, ti dà un moment e ti dice di riposarti, c’è quello che ti fa fare la risonanza, e poi c’è quello che ti fa qualche domanda in più e che piano piano cerca di andare a capire cos’è che non va. Magari ti dà pure il moment, ma non si ferma lì, e magari a forza di domande capisce che c’è anche la risonanza da fare, ma magari no.

Ecco, per educare bisogna darsi tempo e dare tempo a loro, ai ragazzi. Perché il loro istinto è incredibilmente autolesionista. Hanno imparato a difendersi da chi vorrebbe dare loro una mano.

Hanno imparato che diritto significa faccio quello che mi pare, anche se questo ti porta all’autodistruzione, hanno imparato e sono vittime di un buonismo che distrugge loro e tutti quelli con loro. Il peggio è che poi fanno muro, se qualcuno cerca di essere diverso lo bullizzano, o comunque lo intimidiscono. Non è possibile essere diversi a 16 anni, devi essere come il gruppo ti vuole.

Se li prendi uno a uno sono adorabili. La classe è una mandria incattivita al servizio di solito del più stupido. Che per qualche motivo però è ‘popolare’, magari sui social, non so bene. Da qualche parte quella strana società di piccoli che fanno i grandi lo ha implicitamente eletto capo. E lui detta legge. Silenzioso. E gli altri ubbidiscono. In una sorta di silenzio omertoso che fa paura a guardarlo da fuori. E nel nome di questa ubbidienza non pensano, e rinunciano a cercare se stessi, ad inseguire i propri desideri.

A meno che non sei al liceo. Allora le cose cambiano perché lì, al liceo, va di moda essere al top, essere i primi, da grandi saremo la classe sociale dirigente, e bisogna farsi sentire fin da piccoli. E’ un altro conformismo, anche questo sconfortante. Lì il ribelle che magari studia un po’ a modo suo, e non tanto allineato, è altrettanto fuori.

Però è un mondo un po’ più protetto.

Negli istituti tecnici la vita è dura e bisogna pur sopravvivere.

E chi se ne frega dei prof che magari ti vogliono aiutare poveretti. Fanno pure un po’ pena nei loro sforzi ingenui.

E Bianchi li vuole pure formare.

Ci pensiamo noi a formarli.

Noi, i docenti, non abbiamo bisogno di essere formati, abbiamo bisogno di tempo. Tempo per studiare. Tempo per riflettere. Tempo per adattare i nostri saperi a questi ragazzi e capire come andare oltre la nota e far sì che il sapere diventi per loro motivo di essere a scuola.

Altrimenti magari li teniamo fermi come burattini inchiodati al banco, ma rimarranno vuoti e ignoranti. Escono come sono entrati.

Abbiamo bisogno di tempo. Non abbiamo bisogno di riunioni continue. Sulle cose più inutili. Non abbiamo bisogno di fare gli ufficiali sanitari, i tecnici informatici, i verbalizzatori, i compilatori di registri.

Abbiamo bisogno di tempo per essere con i nostri ragazzi, nel pensiero, nell’immaginario, nei sogni, nelle delusioni, nelle sconfitte, nelle paure. Dobbiamo avere il tempo di entrare nel loro mondo per cambiarlo da dentro, per far sentire loro che ci siamo, che li capiamo e che possiamo dare una soluzione, una via diversa che non è quella del solito docente che urla ti do una nota un 2 una sospensione e chiamo tua madre.

Non voglio un pedagogista che mi spieghi cosa insegnare, perché non è mai entrato in classe e non mi interessa il suo ‘metodo’. Ho scritto per anni, pensato ed elaborato idee pedagogiche, ma quando sono entrata nella scuola le mie idee sono diventate mattoncini di lego che dovevano correre sui pavimenti, negli zaini, nei quaderni e negli astucci per ricomporsi in forme con un senso. Ci sono riuscita a volte, a volte no.

Ma io ho bisogno di questo.

Perché io, insegnante, sono una intellettuale e ho bisogno di essere rispettata come tale, non formata.

E se il rispetto me lo mostra la società in cui vivo, e il ministro che si occupa della scuola, forse questo rispetto inizieranno a darmelo anche i ragazzi, e i genitori e non dovrò ripartire ogni giorno da zero, dal dover dire ehi ragazzi, ci sono io, non c’è bisogno dello psicologo, del neuropsichiatra che mi manda (di solito verso la fine dell’anno) una diagnosi DSA che arriva dal cielo e mi dice, docente, via le mani, questo non lo puoi bocciare perché lo diciamo noi. E siamo superiori a te. Abbiamo strumenti che tu non hai. Per capire.

Non ho bisogno di essere formata, ma di essere riconosciuta come quella che sono, una intellettuale e forse anche un po’ sulle nuvole, che si compra il Sabatini Coletti della lingua italiana ed è felice di mettersi a leggerlo, che si compra un libro e vuole il tempo per gustarlo e condividerlo coi ragazzi, che riflette e si emoziona su una poesia. Che scrive cose inutili ma che hanno a che fare con questa strana cosa che è la cultura, che poi è il mondo che vorrei condividere con i ragazzi.

La mia formazione continua  può essere solo questa – il tempo per studiare e per pensare.

Ridiamo valore alla cultura.

Ridiamo valore al docente, come intellettuale.

Dateci la possibilità ad esempio di un anno sabbatico, ogni tanto; chiedeteci di studiare, preparare lavori di ricerca di riflessione in quell’anno, per poi ricominciare, carichi di idee e di speranze.

Basta per favore assurdi corsi di formazione, o pod-cast preparati da docenti universitari per farci ripetere come burattini le loro ricerche. Permetteteci un confronto. Date vita a un mondo culturale, che sia davvero una comunità scientifica, che sappia pulsare di cultura e di vita, di ricerca e di valori.

Tagliate quei programmi assurdi, che nessun docente riesce a finire se non sfinendo se stesso e i ragazzi, e quei manuali, penso a quelli di storia, che nessuno, nemmeno un docente, avrebbe il  coraggio di leggere per intero. Non sono le migliaia di pagine a renderci più intelligenti e critici e liberi. Passo giornate a fare sintesi. Ma vorrei studiare, non fare il sintetizzatore di libri troppo scritti, e per una platea sconosciuta a chi il mondo della scuola non sa cosa sia, non sa che aria respira e di cosa ha bisogno.

Ridateci la dignità di essere intellettuali e pretendete da noi l’impegno e la responsabilità di esserlo. Che vuol dire studiare, scrivere, esprimere un pensiero, comunicare e dialogare con la comunità scientifica. Scuola e università non possono essere divisi e lontani, burocratizzati e trasformati in aride aziende che devono inseguire iscrizioni e soldi per sopravvivere.

Una comunità scientifica è una sfida complessa, ma deve esistere e deve essere aperta a coloro che nella società portano avanti il discorso culturale, nelle sue varie declinazioni, dal volto più specialistico a quello più vivo del confronto educativo. Volti che fanno della cultura ciò che siamo e ciò che desideriamo per un mondo migliore.

Solo in una prospettiva coraggiosa e utopica, di grande respiro, e non pavida, vedo la possibilità per fare il primo passo verso la rinascita della scuola, dei suoi docenti, che si stanno spegnendo nella burocrazia, e dei ragazzi che la frequentano, ma che sempre meno la sentono parte del loro mondo, sincera espressione di ciò che sono o che vorrebbero.