Sulla scuola 1. La scuola a casa con DAD e DD non basta

di Giovanni Genovesi:

Purtroppo si sta avverando quanto avevo scritto qualche tempo fa: che sarebbe stato meglio non aprire le scuole il 14 settembre in presenza.

Non avendo fatto nell’estate nessun preparativo, quasi cullandosi che il coronavirus si fosse calmato, sarebbe stato meglio essere meno spavaldi e aspettare a riaprire la scuola il più possibile per vedere come sarebbe stata la curva ascensionale del covid. 

Di fronte a progressioni negative del virus, meglio attrezzarsi e ritardare ancora l’apertura in presenza delle scuole. Le scuole superiori poi correvano un rischio maggiore di assembramenti, non foss’altro perché, nella stragrande maggioranza, gli studenti sarebbero andati a scuola con i trasporti pubblici. 

Negli autobus, filobus o tram cittadini l’assembramento è sicuro.

E questo è un fatto terribile perché tornato a casa, sempre con un viaggio rischioso come l’andata, prima o poi, il ragazzo rischia di portare il contagio tra i suoi ‘vecchi’. 

Pessimismo? Non credo. 

Basta avere un’attenzione meno distratta ai numeri dei decessi e dei contagi. E dietro ogni numero c’è o c’era una persona, che vecchio o meno vecchio, aveva degli affetti, dei rapporti di tenerezza o d’amore con chi è stato costretto a lasciare non senza una grande sensazione di amarezza, di spaesamento che dura o può durare per lungo tempo insieme a tutto ciò che di negativo si porta dietro, in primis una sconsolante solitudine di un vuoto incolmabile. 

Lo so come pensa chi la sta scampando e spera di scamparla, evitando anche di frequentare quei luoghi insicuri come sono gli ospedali dove, un tempo il migliore sistema sanitario del mondo, chi non è contagiato di Covid non ci va perché ha paura di essere contagiato, e chi è accettato può essere soggetto al triage con tutti i pericoli che ciò comporta, non ultimo quello di andare tra i trapassati. 

Forse, a scuola, come dicono, il contagio sembra meno possibile. Ma non è del tutto credibile e già da subito non poche scuole sono state chiuse in varie parti del Paese e anche ora a gennaio, quando scrivo queste note, non pochi quotidiani allertano sul fatto che virologi e epidemiologi temono che la scuola superiore ci scaraventi in una fase più aggressiva, con contagiati e deceduti aumentati. 

È quanto sta succedendo e le scuole hanno richiuso, chi fino al 25 gennaio (Piemonte, Lombardia,  Emilia Romagna e Calabria), chi (Veneto) fine al 1° febbraio. E, certo, non è finita!

Varie sono le conseguenze sociali di questa pandemia. Ne indico quelle che mi paiono tre le più importanti:

  • lo sconquasso economico immane che ha generato, sfibrando di nervi e di guadagni tutti i lavoratori che hanno dovuto chiudere o quasi la loro attività, come ristoratori, baristi, pasticceri, gestori di cinema, teatri, palestre, uomini e donne di cinema e di teatro e sportivi, librerie e tutti coloro che non siano ritenuti essenziali per l’approvvigionamento alimentare e  la  conservazione della salute come farmacie, parafarmacie e sanitari;
  • l’aumento, strettamente collegato, impressionante di disoccupati, segnatamente nei giovani e specie tra le giovani tra i 24 e i 35 anni. Per una Repubblica che si fonda sul lavoro è un vero e proprio disastro, tanto più che il nostro diventa sempre più un Paese di vecchi che, una volta in pensione, sono considerati, del tutto ingiustamente, pesi improduttivi;
  • la chiusura in casa, sia perché è vietato di uscire  se non per strettissime necessità, sia perché chi può lavora in sistema smart working. Il distanziamento, l’uso della mascherina hanno creato difficoltà di relazioni sociali e sempre più chi si trova costretto a uscire di casa si affretta a ritornarci quanto prima e, addirittura, a rinchiudervisi visto che fa freddo e non può ricevere nessuno e parlare solo con congiunti. Si tratta di un tran tran che ti abbruttisce, depaupera la socializzazione e con essa l’uso della parola;
  • le restrizione delle nostre libertà, che vanno dal non uscire se non per urgenti e comprovate necessità, all’impossibilità di frequentare cinema, teatri, biblioteche e librerie, conferenze e dibattiti, di corsi che sarebbero stati in programma su varie discipline, dalla musica alla storia, dalla fisica alla filosofia, tenuti in varie sale dei palazzi della città. Col perdurare di questo stato, il livello della cultura di una comunità si allenta, si abbassa, perché il cervello umano è un servo infedele, nel senso che lavora e rimugina, elabora nuove mappe mentali o le ritocca o le perfeziona se viene provocato a formare concetti che non farebbe, tirando avanti all’insegna di qualsiasi Belacqua dantesco: minimo sforzo massimo rendimento. Il cervello, anche quello umano, è pigro e se non si provoca segue la routine, come un sonnolento cavallo normanno. Insomma bisogna allenarlo, provocandolo, spingendolo a risolvere problemi e ad affrontare certi temi che il nostro nous, il nostro migliore strumento razionale non solo non avrebbe neppure immaginato che esistessero e che  potessero essere risolti e argomentati. Se poi chiude anche la scuola l’abbassamento della cultura rischia di toccare il fondo, perché proprio questo è il compito della scuola: essere vigile scolta del nostro cervello e, al tempo stesso fungere come un tafàno socratico ai fianchi della città. Anzi, la scuola è la torpedine del nostro cervello per tenerlo sempre sveglio, tramite incessanti provocazioni, per cercare scorgere non solo ciò che c’è ma anche ciò che ancora non c’è ma che sarebbe auspicabile che ci fosse. Ma, per poterlo fare deve essere un luogo sicuro.

In questo disastro, forse una prospettiva positiva possiamo trovarla: sfruttare le occasioni che la pandemia ti permette di godere: la famiglia, il dialogo con i figli e tra i coniugi magari giocando ai giochi di parole e di abilità manuali o raccontando qualcosa, la trama di un film, di un libro, un classico mai letto per intero e forse mai capito come Le avventure di Pinocchio o notizie di politica e discuterne, abituandoti a non litigare ma a dire le proprie ragioni argomentandole e così fare un dialogo. Potrebbero essere questi dei modi intelligenti di fare cultura in famiglia, senza mai dimenticare l’aiuto che genitori e figli più grandi e più avanti del corso di studi possono dare ai piccoli di casa a fare i compiti. È questa, mettendo in campo anche altre attività, la vera vis educativa che più si avvicina alla scuola e che può essere fatta in famiglia. Attività che i genitori con i fratelli più grandi possono animare e gestire, cercando di mettere in piedi una sorta di insegnamento che, in maniera, meno sistematica e più ludica si avvicina a ciò che fa la scuola, come un domestico opificio di cultura.