Ma perché non possiamo ammettere che abbiamo paura?
Ma perché non possiamo ammettere che abbiamo paura?
Alessandra Avanzini
Sempre di più si leggono messaggi confusi sulla scuola, sui docenti, sui genitori e sui loro rispettivi ruoli. E sugli adolescenti. Ragazzi fragili, che al minimo soffio di vento si spezzano, non ce la fanno, così leggo da più parti, ragazzi che hanno paura… invece noi no, noi affrontavamo tutto, non avevamo paura. Perché, leggo ancora, questi ragazzi sono cresciuti da genitori apprensivi, che li difendono in ogni cosa, che li proteggono e vorrebbero essere con loro ad affrontare ogni avversità, rendendoli forti, sicuri, grandi.
Sento parlare della necessità di diventare adulti, di crescere, di maturare, di non avere paura, non sento mai la parola felicità. Sento parlare di genitori che proteggono i figli.
Ma perché lo fanno?
Vorrei rovesciare un po’ il punto di vista, questi luoghi comuni così tristemente diffusi e insistenti, così insistenti che francamente non se ne può più. Luoghi comuni che portano avanti una visione vecchia e triste di vedere il mondo e l’educazione e che vorrebbero un patto di ‘corresponsabilità educativa’ tra scuola e famiglia, che parlano di docenti come ‘facilitatori di apprendimenti’, che spostano sul tecnico ciò che è affare umano. Come se crescere volesse dire smettere di avere paura, e diventare forti, coraggiosi.
Vorrei invitare a smetterla di avere davanti modelli così, modelli sbagliati che ci hanno lasciato e ci hanno fatto crescere non coraggiosi, ma così pavidi da non sapere ammettere che abbiamo paura. Così sciocchi da pensare di dover nascondere ciò che siamo e far vedere un volto che non è il nostro. Dante queste persone che non sanno capire chi sono e cosa vogliono, questi che ingannano anche se stessi, ipocriti un po’ li chiamerei, alla fine li mette nella parte più spregevole dell’Inferno, Malebolge, perché responsabili della distruzione del mondo. Cosa ci hanno lasciato in eredità questi modelli di coraggio, adultità, di forza? Un mondo alla deriva, travolto dalle guerre, dall’inquinamento, dalle pandemie, dalla paura. Eppure ancora in questo mondo c’è chi ha il coraggio di esaltare il modello della forza, della capacità di cadere e rialzarsi da soli.
Ma perché dovremmo rialzarci da soli?
Quando ero al liceo ad un certo punto ho avuto tanta paura di stare da sola, una paura paralizzante, in un mondo che mi chiedeva appunto coraggio, forza, solidità e certezza. Ero una adolescente fragile. Fuori di moda, forse per il tempo, non so. Io avevo paura della solitudine. E una mia compagna di classe, peraltro ripetente da un paio di anni, mi ha detto semplicemente cogliendomi in una mia crisi di ansia: ma se hai paura di stare sola, non stare sola, che problema è?
Lì per lì ricordo che sono rimasta spiazzata e ho cominciato a pensare, già, che problema è? Perché deve essere necessario dimostrare che sappiamo stare da soli? Cosa dobbiamo dimostrare? Che siamo coraggiosi e impavidi? Che siamo adulti e non guardiamo a sciocchezze, ma solo alle grandi e importanti cose della vita? Quali sono poi queste grandi cose?
Perché dovremmo rialzarci da soli?
Ho cominciato a pensare che la vita è breve e non ci possiamo fare niente; e che diventare coraggiosi per poi morire mi sembrava uno sforzo inutile.
Perché non posso pensare a un mondo dove invece di correre e preoccuparci di diventare adulti, ci fermiamo a guardare chi cammina spaesato intorno a noi e ci assomiglia? E perché non rimanere in ascolto dell’umanità degli altri? Che è fragile, ha paura, e di stare sola non ha nessuna voglia? Esistenzialmente sola intendo, ovviamente.
Perché l’insegnante non può essere la guida fragile che ha paura di cadere e di non farcela, che prende per mano il suo allievo ma caspita ogni tanto ha bisogno di un incoraggiamento anche lui? Come Dante e Virgilio che nel Purgatorio diventano uno guida dell’altro, in un reciproco sostegno che commuove e fa capire che esser guida di te stesso significa avere il coraggio di dare una mano all’altro, significa che hai colto la comune umanità che ci trasciniamo addosso.
Come la ginestra sui pendii del Vesuvio, non abbiamo molte possibilità, non siamo forti, né diventeremo mai grandi, però possiamo comprendere chi è come noi e capirne il destino, sentire che ci assomigliamo e unirci nella comune paura, nella comune, dolcissima e potente, fragilità. Sarà il nostro profumo a dare senso al mondo, a quelle pendici così aride e desolate, e non falsi modelli di una forza che non sarà mai nostra.
Perché continuare a portare avanti un modello educativo violento che ci ha portato a due guerre mondiali, ai totalitarismi, al disastro ecologico, e alla nostra distruzione interiore? E a non fermarci mai per capire cosa ci rende felici?
Perché non fermarci a cercarla questa felicità, che forse è fatta non di titanismo ma di piccole cose, di desideri molto umani, magari piccoli meschini fragili e stupidi, solo umani. Perché non fare i nostri piccoli grandi errori senza dover anche fronteggiare la necessità di sentirci ciò che non saremo mai, adulti forti modelli di impavida capacità di affrontare il futuro e la vita?
Ma quale futuro e quale vita se la distruggiamo cavalcando idee e desideri che non ci appartengono? E distruggendo il mondo di cui facciamo parte, e gli altri che viaggiano con noi?
Noi docenti non siamo facilitatori di conoscenze, non siamo valutatori, non siamo erogatori di certezze o di tecniche. Siamo uomini, che hanno questo strano bizzarro sogno, che la scuola può essere un luogo felice dove vivere un po’ della propria vita con ragazzi che hanno voglia e desiderio di sognare, e di qualcuno che regali loro questo coraggio (e questo sì lo chiamo coraggio), quello di sognare, di desiderare. Che hanno paura, come noi, che sono fragili, come noi, ed è bello, per me vitale, sentire questa comune fragilità. Sentire questa umanità così piccola. Perché mi fa pensare che il mondo può ancora diventare un posto migliore in cui vivere. E magari con meno paura. Perché invece del sogno di diventare grandi, iniziamo ad inseguire quello di diventare felici. A partire da ora, da quelle ore di scuola che non sono e non devono essere un incubo, un luogo in cui cadi e ti rialzi da solo, ma un luogo in cui se inciampi sai che non ti farai male perché qualcuno sarà lì per te e con te.
Quello che poi accade nella famiglia, noi docenti non lo possiamo sapere. Ma chi abbiamo davanti non è la famiglia, è un ragazzo che zoppica, è fragile, è proprio come noi, e di noi ha bisogno, come noi ne abbiamo di lui. E mi fa sentire grande sapere che posso condividere questa mia fragilità con chi mi assomiglia, e magari avere sempre un po’ il coraggio e la forza di regalargli un sogno in cui desiderare di vivere.