L’ora … di Scuola

Sabrina Baratta

26 febbraio 2021

Una mia ora di lezione… come raccontarla? 

Esito un attimo, poi mi rendo conto che non c’è niente di più semplice, immediato ed efficace quando si parla di scuola, perché la Scuola è vita e la vita è complessità e incertezza, è mistero e turbamento e non la si può ridurre a uno schema fruibile e veloce, la si può solo attendere e ogni volta reinventare. Tutti oggi vorrebbero che qualcuno desse istruzioni per l’uso per ogni cosa, ma non ci sono istruzioni per l’ignoto, solo passioni.

Poco fa, nello scritto di un mio alunno che aveva come tema “La scuola dell’utopia” e cita Gaber, leggo queste parole: «Non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi, il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all’amore; il resto è niente».

Ecco, dopo queste parole mi riesce difficile parlare di quanto io sia brava a in-segnare, a lasciare il segno in loro, a condurli e a e-ducarli, affinché ognuno di loro “venga alla luce” e trovi il suo piccolo grande posto nel mondo, perché capisco che sono i ragazzi spesso a mostrarci la strada, sono loro ad arricchire noi, ad insegnarci e lasciare il segno fuori e dentro di noi; e così mi accorgo che quell’amore di cui parla Gaber e che il mio alunno cita e a cui noi non diamo mai troppa fiducia, quell’eros della conoscenza che ci accende e accende, ecco, quello sarebbe la soluzione ad ogni lezione, anche quella più gravosa e difficile da sviscerare o interpretare.

Nel corso degli anni mi sono accorta però che il modo di “sentire questo amore”, questa passione che dovrebbe passare come un filo rosso, attraverso il Sapere, tra noi e i nostri ragazzi, è cambiato e i ragazzi hanno spesso bisogno di passare attraverso laboratori del fare, sentono di dover sperimentare, di provare ad essere loro i protagonisti del loro Studio e del loro apprendimento e che il ‘saper essere’ deve passare attraverso il ‘saper fare’. 

In realtà forse è sempre stato così, ma le generazioni passate giocavano per i prati e nei cortili e il loro saper fare lo mettevano in atto ogni giorno, la loro fantasia volava come le loro gambe, erano capaci di stare in gruppo e di “cavarsela da soli”, senza che alcun adulto imperasse, onnipresente su di loro, e così, quando erano in classe, erano già pronti per pensare alle idee che governano il mondo, anzi le cercavano quelle idee, perché il mondo fuori era già una palestra di vita. Imparavano a ‘fare’ per le strade di rioni o villaggi e scoprivano di saper essere tra i banchi di scuola.

Ma ora non è più così, i nostri alunni non sono mai soli e non sanno di saper fare se non lo scoprono insieme a noi, sono spesso intrappolati in mondi virtuali che danno loro l’illusione di essere qualcuno e di conoscere e fare mille cose, di vivere mille esperienze, ma in realtà non sanno che un unico pensiero omologato e scarno è ciò che guida le loro azioni e i loro pensieri. E gli adulti? Loro ci sono sempre e non li abbandonano mai, non li lasciano provare e non li lasciano sbagliare, non li lasciano mai “fare” in libertà e autonomia. 

Così ora, ciò che  loro cercano quando sono tra i banchi di scuola è che vogliono che noi gli mostriamo è come si fanno le cose, come si scrive un pensiero, come si costruisce un oggetto, come si può aprire e “inventare” (nel senso etimologico del termine, nel suo “trovare, scoprire tesori nascosti”) qualcosa o “qualcuno”, come si può stare insieme per “giocare” al gioco della vita, a quel “come se” che ora chiamano compito di realtà e che è invece il gioco più antico e importante del mondo, quello che vince la noia e fa nascere il desiderio di conoscenza. Quel fuoco sacro di cui parlavano gli antichi che ti fa essere lontano solo con il pensiero e ti fa desiderare di essere, fare e conoscere qualsiasi cosa. 

Per questo nella mia ora di lezione non manca mai un laboratorio del fare e la pratica precede quasi sempre la teoria. Non sempre i ragazzi sanno già fare ciò che chiedo loro, anzi, quasi mai, a volte si spaventano per le mie richieste, ma, come accadeva nei giochi di cortile, quando sono liberi di fare, si scoprono nuovi, diversi, capaci e questo credo doni loro una sensazione piacevole e che apre a nuove possibilità. Cerco di fare in modo che diventino, a volte scrittori, altri ricercatori, altri inventori, altri indagatori del pensiero umano e del funzionamento del nostro geniale pensiero. 

Faccio un solo esempio, anche se ne avrei mille; l’ora di grammatica è sempre quella in cui si spiegano regole sul libro che spesso si fanno imparare a memoria e poi si fanno esercizi, per lo più compilativi, altre volte, più rare, si fanno costruire frasi o periodi. 

Già da quando, agli inizi, lavoravo come esperta formatrice per gli Enti di Formazione Regionale e poi, dopo, come docente di professionali o di tecnici, mi ero accorta che grammatica insegnata in questo modo non funzionava, spesso i ragazzi mi chiedevano a cosa servisse e io non sempre sapevo cosa rispondere. Anche a me quella grammatica non piaceva, eppure io amavo e amo la parola e credo nello studio accurato della lingua perché ogni volta è un mistero per me conoscere nuove parole, “aprirle” come si fa con i giochi di bambino e scoprire le strutture sottese al pensiero mentale umano. Così sono ripartita da qui, da questo mio amore, da questa mia meraviglia. 

I linguisti hanno scoperto, verso metà Novecento, che l’umanità è dotata di una unica struttura mentale, di una sola grammatica che viene azionata in modo uguale, ma diverso a secondo del contesto sociale, culturale e idiomatico di appartenenza; in poco più di un anno, per un insondabile mistero, iniziamo a parlare e a pensare. Questo i ragazzi non lo sanno, ma quando lo scoprono ne restano meravigliati. E quando capiscono che ogni verbo è un pensiero e che scoprire come funziona il proprio pensiero è capire come si è, anche in una relazione di diversità e unicità con gli altri, studiare grammatica diventa possibile e a volte appassiona. 

Non scindo mai la scrittura dalla grammatica, parto sempre dal loro pensiero che da semplice si fa complesso o da complesso si fa semplice e mentre imparano a “fare”, aggiungendo e sottraendo, imparano a capire a e ragionare sulla lingua, sul pensiero e su loro stessi. Il “fare con le parole” (che poi, non a caso, sarebbe anche l’etimologia della parola poesia) è il fulcro di ogni mia lezione, perché gli alunni si vedono protagonisti e sperimentatori del proprio apprendimento e scoprono che saper fare è anche saper essere e che non si può saper essere se non si “sa fare”. 

Ma tutte queste mie parole non vogliono essere il racconto di una lezione da seguire, ma piuttosto da in-seguire, un esempio di Scuola in divenire, quella in cui tutti ci si mette sempre in gioco, in cui si insegna e si apprende nello stesso momento in uno scambio appassionato tra docente e discente, in cui si inseguono, appunto sempre nuove strade e in cui non si perde mai di vista quell’Amore di cui parla il mio alunno; perché se c’è l’Eros, se c’è la Passione per ciò che si fa e una ricerca continua per nutrire cuore e mente, questo è tutto e tutto «il resto è niente».