DIARIO DI SCUOLA I

DIARIO DI SCUOLA

 

Alessandra Avanzini

 

Inizia con questo numero la rubrica Diario di scuola. Devo pertanto fare alcune precisazioni sull’organizzazione e sui contenuti. Innanzitutto, come sarà strutturata: sarà presente una prima parte più generale e teorica, che prende in considerazione un aspetto del “guardare e pensare la scuola”; a seguire una seconda parte che entra nel merito del “fare e vivere la scuola”, con spunti da racconti di docenti delle scuole secondarie (di primo e secondo grado) che hanno come requisito comune la condizione del precario.

Essendo un “diario”, ovviamente la rubrica è scritta in prima per­sona; tuttavia gli episodi raccontati non sono necessariamente capi­tati a me, ma anche ad altri con un vissuto di studi, aspettative, e poi di supplenze, molto simile al mio. Prima di iniziare ad insegnare non mi ero resa conto di quanto numerosi fossimo.

 

 

  1. Il punto di vista: “mezzo-e-mezzo”

“Then I shan’t be exactly a human?’ Peter asked.

‘No’.

‘Nor exactly a bird?’

‘No’.

‘What shall I be?’

‘You will be a betwixt-and-between’”.

(Peter Pan in Kensington Gardens)

Nell’iniziare questa rubrica, voglio prima di tutto chiarire il punto di vista dal quale scrivo: quello del precario. La prospettiva infatti non è così lineare ed immediata; bisognerebbe immaginare un quadro di Escher per provare ad entrare in sintonia. Il che significa che la scuola è vista dal di dentro, eppure non del tutto; la scuola viene raccontata da chi la vive, ma non del tutto. Lo sguardo di chi parla è, infatti, un po’ strabico; e un po’, a dire il vero, mi piace che sia così. Io sono dentro la scuola, per un verso, ma anche fuori; sono dentro il mondo della ricerca, per un verso, ma anche fuori.

È la terribile libertà di trovarsi in una zona di frontiera, non certo per scelta, ma perché è così – e non importa qui spiegarne le ragioni. È la libertà imposta che mi fa essere in una posizione teoreticamente privilegiata, non ci sono dubbi, rispetto a chi vive nella statica sicu­rezza di una prospettiva garantita fuori e dentro di sé; resta il fatto che, dal punto di vista pratico, è solo disastrosa. È la vita vissuta sul filo dell’incertezza, specialmente sul versante economico.

Cercando di non esserne travolti, tuttavia, e con la caparbia volontà di cogliere il meglio, di fare della “nobile menzogna”, dell’autoillu­sione cosciente, un gioco fin troppo reale, può essere anche vista come lo slancio a non adagiarsi mai. Va detto che per riuscire è necessaria una forte dose di autoironia così come è fondamentale non pensare troppo al futuro e vivere giocando con un presente che sfida ostinata­mente se stesso.

Forse sarà per questo che con i ragazzi mi trovo sempre in totale sinto­nia: condivido della loro esistenza probabilmente questo sguardo in divenire, che non ha schemi prefissati, modelli da imporre, regole rigi­damente date. Le regole si costruiscono insieme, gli obiettivi si condividono e si decidono giorno dopo giorno. Il senso non è dato, è una meravigliosa conquista.

Per tutti questi motivi, avrei voluto intitolare questa rubrica “mezzo-e-mezzo”, “betwixt-and-between” come recita l’exergo; ma l’immagine non è immediata. Per lo meno, non lo è se non ci si è fer­mati a leggere Peter Pan in Kensington Gardens, dove viene presen­tato Peter Pan, questo bambino a metà, un po’ uomo e un po’ animale, mezzo e mezzo appunto, con un’identità forte e fragilissima insieme. Pe­ter non appartiene a nessun mondo – né al sogno né alla realtà – ep­pure appartiene ad entrambi e offre loro la possibilità di esistere, e non semplicemente di continuare ad essere uguali a se stessi. Straniante ma insieme coinvolgente, attraente ma al contempo disturbante, Peter Pan rappresenta ciò che non vorremmo mai essere, l’idea di non apparte­nere mai a nessuno e a nessun luogo, eppure con il desiderio di fer­marsi ed esistere davvero per qualcuno.

Forse in termini un po’ troppo enfatici, questo è il precario.

Da una parte il senso di libertà è quasi inebriante, ma la sensazione di essere prigioniero arriva ad essere ad un certo punto quasi soffo­cante, perché di fatto non gli vengono riconosciuti diritti; al precario non spetta niente, tutto ciò che ottiene sembra sia una grazia concessa. Non è semplicemente una situazione pratica e contingente; è uno sta­tus esistenziale.

Il precario non può scegliere, non può nemmeno di fatto esistere a tutti gli effetti. Ha un lavoro? Sì e no. Ha un’identità? Sì e no. È rispettato? Sì e no.

Ma la cosa peggiore è che essendo precario non sceglie mai. Non sceglie le classi, non sceglie le materie, non sceglie i libri di testo, non può sostanzialmente dare la sua opinione su niente, anche perché tante vicende fanno parte di questioni già iniziate e che finiranno quando lui se ne sarà andato. Si trova, senza averlo chiesto e quasi sempre senza volerlo, coinvolto in progetti spesso assurdi, se non del tutto inconsi­stenti, che non fanno che rubare tempo al lavoro con i ragazzi.

Peggio ancora: non può legarsi, per così dire, investire in un pro­getto a lungo termine, perché sa che, se nel migliore dei casi l’anno succes­sivo avrà qualche ora da qualche parte, quasi sicuramente non ve­drà più quelle classi, quei volti.

Alla luce di questo il docente precario deve guardare i ragazzi che in­contra ogni anno con lo sguardo di chi sa che li lascerà a breve.

Io la chiamo la “sindrome Mary Poppins”, che si manifesta nella consa­pevolezza che non vedrai il frutto di tutto quello che stai co­struendo; i frutti li raccoglieranno altri docenti, dopo di te, felici ma­gari di avere tra le mani una bellissima classe, motivata ad esistere da chi è stato capace di essere con loro in precedenza.

Anche Mary Poppins è betwixt-and-between, perché sa di essere guida solo e soltanto fino a che il vento non cambia; allora se ne dovrà an­dare.

Ma come si può così essere guida? Proprio così, con la consapevo­lezza che sarai sempre e comunque mezzo-e-mezzo. Perché il punto è que­sto: saper essere non guida che si impone, non il docente che qualsi­asi cosa accada sa tenere in pugno la classe; queste sono grandis­sime assurdità eppure, purtroppo, vanno molto di moda. “Guarda come tiene bene la classe quello, quando entra non apre più bocca nessuno”; che è una pessima cosa perché significa che i ragazzi non stanno affatto bene con lui/lei.

Il punto, piuttosto, è essere con loro, ogni giorno, perché quella che loro stanno vivendo tra le mura della scuola è la loro vita, per tanti la gran parte del loro tempo, vita vera che va rispettata e aiutata ad esi­stere. Come? Cercando di:

  • gioire con loro anche delle cose apparentemente più sciocche;

ridere con loro;

  • soffrire con loro, anche per piccole cose come per una insuffi­cienza;
  • riportarli a riconquistarsi il loro bel voto, che non conta nulla, certo, ma è importante;
  • far sentire loro che sono importanti e che possono fare grandi cose;
  • parlare la loro cultura, che a volte non assomiglia affatto alla no­stra;
  • insegnare loro che la parola è la loro vera, grande possibilità e che, al contrario, la violenza non è espressione di sé, ma totale nega­zione;
  • far capire loro, nella faticosa quotidianità, che muoversi nella cultura può essere un’esperienza incredibilmente piena e felice;
  • infine trasformarsi insieme per diventare più grandi con loro.

 

Questo forse è l’aspetto più difficile da accettare perché significa abban­donare ogni posizione di distacco/superiorità e comprendere che la classe è composta di singoli individui ed è con ognuno di loro che la no­stra identità, la nostra umanità ha a che fare; con ognuno di loro ci dob­biamo confrontare. E questo, se è fatto con lucidità e intelligenza, non può che portare a un progressivo, irreversibile cambiamento an­che di noi stessi.

Nello stesso tempo però è necessaria un’avvertenza: bisogna anche non farsi travolgere, ciò che siamo deve rimanere un punto fermo, che sa modificarsi, certamente, ma non deve perdersi. Altrimenti il ruolo di guida non esiste più. La guida è incerta, è fragile, costruisce la strada con i ragazzi, ma non si perde. La guida non conosce il per­corso, perché lo deve inventare con i ragazzi, ma conosce l’obiettivo; non vende false sicurezze, perché non ne ha. Ecco allora un primo essen­ziale obiettivo/sfida per ogni docente: accettare la nostra fragi­lità/umanità come territorio comune da cui partire e a cui continua­mente, ostinatamente ritornare.

  1. Il primo giorno

“Gli schemi e i modelli devono servire ad analizzare ed interpretare la vita;

non è la vita che deve forzatamente rientrare negli schemi”

Settembre: assegnazione delle supplenze. Dopo vent’anni dedicati soltanto alla riflessione, alla ricerca e all’insegnamento universitario, tro­varsi in questa stanza immensa, con un’enorme massa di docenti mu­niti delle più incredibili informazioni su come procedere, mi fa sen­tire smarrita. Il primo istinto è scappare.

Poi però incrocio lo sguardo di alcuni miei ex studenti universitari che mi guardano sbalorditi: “Cosa ci fa qui prof.?” Spiego la situa­zione. Mi rimandano un immediato senso di calore e mi sento cocco­lata e accompagnata in ogni passo. Capisco cosa devo fare, come cer­care di sopravvivere in questa sorta di fiera dove sembra che si stia contrattando per il prezzo migliore. Che desolazione. Quando spiego loro come mai mi sono iscritta alle graduatorie e la confusione che ho fatto (sostanzialmente mi sono lasciata l’opportunità di scegliere tra pochissime scuole) le mie ex allieve mi proteggono e mi lasciano la cattedra che voglio (cioè a dire il vero l’unica che posso avere). Verso mezzogiorno mi ritrovo con 12 ore al Liceo artistico (e non ne volevo di più). Le ragazze mi abbracciano. Esco frastornata ma in lacrime non so nemmeno bene io perché e me ne vado dritta al liceo. Il preside mi accoglie con una gentilezza incredibile, mi propone altre 6 ore a completamento della cattedra, che rifiuto perché non ho mai insegnato al liceo, voglio fare le cose bene. Vedo lo stupore nello sguardo del dirigente, ma nessun problema. “Ho le due classi che fanno per te” mi sento dire. Non so ancora quale sarà la sorpresa. Vengo lasciata in vicepresidenza dove un altrettanto gentile vicepreside mi spiega nel dettaglio ogni aspetto burocratico, mi fa visitare la scuola, insomma mi accompagna verso il mio primo giorno in quella che è senza dubbio la scuola più bella della città. Sono incantata dal contesto. Siamo dentro a un palazzo storico, con quadri meravigliosi dappertutto. I ragazzi qui si trovano nel pomeriggio e dipingono; aspiranti artisti, hanno anche trasformato le pareti dei bagni in vivacissimi affreschi. Adoro l’arte, essere qui dentro se non altro mi fa sentire a mio agio.

Prendo servizio il giorno dopo, alle 7.50, classe quarta, dove inse­gno italiano, storia e geografia. Incontro i ragazzi, ci presentiamo, chiedo qualcosa di loro; poi mi faccio spiegare dove sono arrivati con il programma delle mie materie. Comincio a intuire che mi è stata data una classe impegnativa, per vari motivi. Con i programmi sono fermi all’inizio della terza. Senza scompormi, inizio a fare una lezione sull’età moderna; forse un po’ troppo complessa, ma loro sono entusiasti. Ci salutiamo: “Sono felice di essere con voi quest’anno”.

Esco, incontro la docente di storia dell’arte, che mi sarà sempre di grande supporto: “Tu sai che in questa classe avrai un bel lavoro da fare”.

La cosa non mi spaventa. Piano piano scopro che questi ragazzi face­vano parte di una classe molto più grande e che loro, di quella classe, erano la parte “difficile”. Per qualche motivo, la loro autostima è a un livello disastroso: si ritengono sostanzialmente degli incapaci e non sembrano volersi muovere da questa condizione. Non si danno possibi­lità, aspettano soltanto che gli anni di scuola passino.

Ma il mio entusiasmo non si fa piegare, nemmeno dai più assurdi tra i loro comportamenti. Seguo la mia idea cercando di interpretare in modo flessibile le “linee guida” che ci diamo nei consigli di classe e che non rientrano nel mio modo di vedere le cose (infatti non siamo mai tutti d’accordo, ma il precario non ha un grande ascolto e di solito il suo parere sfuma, la sua persona sembra invisibile): “Entrano sem­pre in ritardo, non va tollerato. Se arrivano dopo le 8 vanno lasciati fuori. Indichiamo sul registro il ritardo e li lasciamo fuori, così saltano la prima ora”. Di questo passo, sommandole alle altre, alcuni tra i ra­gazzi alla fine del primo quadrimestre in alcune materie avrebbero un nu­mero di assenze tale da metterli a rischio bocciatura.

Io con loro ho sempre le prime ore, ed è vero, arrivano sempre in ritardo. Alle 7.50 in classe siamo in due o tre. Alle 8 forse arriviamo a 5 o 6. Che senso ha lasciarli fuori? Spesso non segno nemmeno i ri­tardi. Voglio far sentire loro che li aspetto, che il mio obiettivo è es­sere con loro. Voglio che si sentano accolti. Nel giro di un paio di mesi quasi tutta la classe arriva per le 8. Siamo arrivati ad un compro­messo: il quarto d’ora accademico lo concedo di mia iniziativa al di là delle regole imposte. E la loro gratitudine è immediata… Sorprendentemente nelle mie ore i ritardi segnalati sono pochissimi! Consi­derato che ho tante ore con loro, praticamente ne salvo tanti da una “burocratica bocciatura”.

So che il preside ha capito, sorride e mi lascia fare.