Diario di scuola (II)

Alessandra Avanzini

 

 

  1. Sogno o realtà? Muoversi in un mondo di ombre

 

The frank realization that physical science is concerned

with a world of shadows is one of the most significant

of recent advances

A.S.Eddington

 

 

Dal mio dimezzato punto di vista non oso chiudere i miei allievi in un assoluto e certo dato di fatto. Li guardo correre prima dell’inizio delle lezioni e mi sembra di afferrarne l’identità e l’umanità solo a sprazzi, solo quando, per chissà quale favorevole congiuntura, trovo un accesso. Ma un accesso a cosa?

Alla realtà vera? Al loro mondo? O soltanto a una mia idea, più strutturata possibile, di quello che il loro mondo potrebbe essere? Credo che sia proprio così: abbiamo a che fare con un mondo di ombre, o forse con un mondo tratteggiato, abbozzato solo lievemente. Perché quel mondo possa prendere forma, c’è bisogno di un incontro.

Siamo onde e particelle insieme, particelle che si muovono secondo un proprio bizzarro progetto, talvolta, e invece altre volte in modo del tutto casuale; poi ogni tanto s’incontrano e magari per qualche attimo si comprendono. Ed è una sensazione fantastica.

È in quei preziosissimi attimi che si gioca tutto: relazioni, apprendimento, possibilità di costruire viaggi in mondi altri, lontani eppure così necessari perché questo nostro mondo, apparentemente così reale e definitivo, abbia un senso e un calore.

Non so se sia vero che la realtà è soltanto interazione, un’ipotesi di un soggetto che, osservandola, la contamina e la rende possibile. Certamente è l’interazione che riesce a offrirle un valore.

Ma com’è possibile costruire questa interazione? La scuola sempre di più insiste sull’esasperare l’importanza di emozioni “assolutizzate”, sulla solitudine di un soggetto e sul suo disagio interiore, sull’esaspe­razione di un mondo – quello appunto delle emozioni – così poco tangibile e così poco condivisibile quando non c’è niente a sostenerlo, capirlo, dargli forma.

Schiere di ragazzini vengono mandati dagli psicologi a risolvere ciò che gli insegnanti rinunciano di principio a fare. Lo sportello psicologico è ormai una moda affermata, un sollievo per tanti.

Ed ecco allora che si affacciano schiere di psicologi anche per i docenti a spiegarci tutte queste emozioni. Di solito a questi incontri non partecipo.

Perché, ne sono convinta, se la scuola è il mondo dell’educazione, è a questa educazione che dobbiamo attribuire un ruolo preciso e specifico. Lo sguardo educativo deve essere fondato in sé. E le emozioni hanno un senso quando si costruiscono insieme a una mente pensante. Non mi va di condividere le mie emozioni, e non mi va di sentirmi addosso le loro. Non è il mio ruolo e mi pare non debba essere nemmeno quello della scuola. Preferisco mettere in gioco qualcosa che amo, come un libro, e usarlo come terreno comune, terreno di scambio, campo su cui costruire un confronto e una crescita – strada necessaria per conoscerci e andare incontro a quell’interazione.

Sempre nella convinzione che io non ho accesso a loro, alla loro natura più vera e profonda, ma forse alla proiezione dei loro mondi sì. A un patto però: offrire loro la capacità di costruirli, questi mondi, di rappresentarli e di comunicarli. A quel punto forse potremo incontrarci. Cosa fare nel frattempo? Giocare sull’equivoco e sulle apparenze, trascinarli dentro alla mia passione per lo studio, dentro al mio sincero interesse anche per loro.

La mia idea è che non avrò mai accesso alla loro identità profonda, ma alla loro umanità sì, quella è comune ed è un punto di condivisione grandioso. Giochiamo in un mondo di ombre ma giochiamo con materiali che appaiono così veri, tangibili e, quelli sì, emozionanti. E quei materiali possono costruire un ponte.

Da un punto di vista educativo la prima conseguenza è il rispetto: non ho alcun diritto come docente di calpestare la loro ombra, di presumere ciò che nessuna legge può presumere: chi sono i miei ragazzi e dove possono arrivare. Io non ho alcun diritto di dire dove un mio allievo può arrivare e con quali tempi, non posso prevederlo: loro sono sempre e comunque vita, da cui abbiamo il dovere di lasciarci sorprendere. La conoscenza e la crescita procedono a sprazzi, improvvisamente la comprensione si può aprire in maniera del tutto inaspettata. Cerco allora di costruire questa parola, rispetto, e di declinarla in tutte le forme possibili, senza però mai pronunciarla. Non deve essere vuoto formalismo, ma sostanziale, profonda conquista culturale.

Talvolta non posso proprio essere d’accordo con ciò che ascolto nei consigli di classe: classificazioni che mi sembrano confondere le idee invece di aprire la mente – allievi BES, DSA, misurazioni di QI … Come si può pensare di limitare un ragazzino nella misurazione di un presunto QI? Cosa vuol dire quoziente di intelligenza? Cosa vuol dire intelligenza? E che senso ha farne un dato oggettivo, assoluto, misurabile?

Mi sembra di vedere un mondo di ombre che, spaventato dalla propria inconsistenza, pretende una metafisica certezza: dati, dati e ancora dati su cui scaricare ogni nostra responsabilità. Se il QI è quello, noi come docenti non possiamo fare granché, questa mi pare l’unica motivazione per misurazioni di questo tipo: deresponsabilizzare. Un po’ come la logica del protocollo in campo medico: procedo seguendo vie predefinite, se funziona, tutto bene, se non funziona, in tutti i casi la colpa non è di nessuno, solo del protocollo.

Eppure Montessori a inizio secolo aveva dimostrato in modo convincente come le misurazioni QI fossero sostanzialmente infondate da un punto di vista scientifico, in quanto valutano non l’uomo, ma il fatto psichico isolato dal contesto; uomini-monade, particelle senza relazioni, decontestualizzate. A cosa corrisponde quella misurazione? “L’intelligenza – scriveva – senza la conoscenza è un’astrazione”.

Responsabilità, dunque, questa è la seconda parola cui devo dare una forma, senza pronunciarla, ma portandola ad essere concretamente tra di noi; responsabilità che si concretizza nel divenire consapevoli soggetti di conoscenza.

Non ho altra arma se non una, quella in cui si gioca tutto il mio lavoro – il sapere.

Sta a me umanizzarlo e trasformarlo in un gioco potenzialmente condiviso. Se riesco a farli entrare con entusiasmo nel viaggio della conoscenza il mio obiettivo è raggiunto. Mi accorgo però prestissimo che la cosa è seriamente complicata, perché il loro primo obiettivo è molto più concreto del mio: essere autonomi, indipendenti, guadagnare tanti soldi, avere un lavoro di successo.

E poi, ragazzi?

“E poi prof. cosa vuole di più? Che me ne importa di faticare a studiare, coi soldi mi pago pure il diploma”.

La strada è in salita.

Io, persa a ragionare con il mio mondo di ombre, loro, attratti come falene dall’abbagliante luce della più spietata concretezza. Un disastro emotivo: se non raggiungono la loro concreta destinazione, il loro obiettivo così poco ideale ma così sicuro, che ne sarà di loro? Come far capire che la loro storia, qualunque sia, con errori e insuccessi, è tutto ciò a cui devono dare senso e valore e che può renderli felici?

Come posso uscire da questa impasse? Cerco la strada per costruire un altro valore fondante, quello del dialogo, con gli altri e con se stessi di riflesso. Lo individuo come punto di partenza, il mio inizio, probabilmente anche il mio punto di arrivo. Ma non ho la più pallida idea di come arrivarci. Provo quotidianamente a dedicare tempo alla discussione; a loro piace molto e parliamo, moltissimo. Ma nessuna di quelle parole assomiglia a un dialogo.

 

  1. La storia in un film.

 

Quando niente sembra più possibile,

è bene aprire le porte all’impossibile

 

Ed ecco, è arrivato. L’ultimo giorno di scuola. So che non li rivedrò più anche se il preside mi ha dato mille consigli su come fare a ritornare in questa scuola – ci riusciamo, vedrai. Ne sarei felice anch’io. Ma la scuola è una gigantesca macchina burocratica che procede per logiche sue, senza dare ascolto a nessuno. Ogni tanto qualche traccia di umanità fa saltare l’ingranaggio, ma di solito non è così. E infatti scoprirò a settembre che la mia scelta sarà necessariamente incanalata altrove. Nonostante il mio desiderio e quello dei miei ragazzi che dal primo di settembre iniziano a riapparire sul mio whatsapp: “prof. sarà con noi?” E il primo giorno di scuola: “prof. ci dica che quella che sta per entrare è lei, anche se il suo nome non è nell’orario”.

“No, non sono io, mi dispiace. Ci vediamo mercoledì sera”.

Sì, perché la mia “classe difficile” ha vinto un premio internazionale di cinema, sezione giovani. Siamo arrivati a questo e la serata di premiazione sarà l’occasione per gli addii.

Li saluto e poi torno a casa ripensando all’incognita che sta per iniziare e all’anno appena finito. Anno eroico direi, davvero entusiasmante. Forse, mi dico, alla fine è meglio così. Il vento è cambiato, io me ne devo andare, loro hanno incamerato una dose tale di autostima che niente a questo punto li può fermare. Va bene così.

Per di più la sfida è stata altissima e davvero stancante per me.

Primo problema era stato farli venire a scuola e farli arrivare abbastanza per tempo, con quella flessibilità senza la quale li avrei persi tutti.

Secondo grandissimo problema è in realtà un insieme di problemi: svegliare il loro interesse e farli concentrare su aspetti sostanziali e superare limiti fortissimi come la strenua e inconsistente competizione fra di loro. Competizione basata su banalità tipo bellezza/bruttezza, simpatia/antipatia, popolarità/isolamento. Capire che i problemi sono strettamente legati mi è indispensabile per trovare la strada più efficace.

A tutto questo si unisce una profonda ignoranza ben coltivata da ognuno di loro. Così decido che il manuale di storia e quello di italiano non bastano; che i programmi delle due materie devono velocemente arrivare ad affrontare lo stesso periodo; che devo abbinare la lettura di libri a tutto questo.

Assegno subito la prima lettura: Utopia di Tommaso Moro. Rimangono sconvolti, non di Utopia, ma del fatto stesso di leggere un libro. “Ma prof. io non ho mai letto un libro!”.

Dentro di me vacillo “non hanno mai letto un libro e io li faccio iniziare da Utopia?”, ma non lo do a vedere. Rimango impassibile. “Avete tempo un mese”.

In parallelo preparo quadri di storia che li possano far procedere in modo più fluido e organico di quanto non possa permettere un manuale.

I risultati si vedono a sprazzi: la prof. di arte è entusiasta perché i ragazzi adesso sanno collocare pittori e movimenti artistici, non si muovono più nel vuoto, ma io rimango desolata perché la loro conoscenza non ha sostanza. Il tempo storico è un unico monotono colore senza differenze, appiattito su un presente dilatato.

Ci sono però dei punti di forza che a tratti emergono: un orgoglio che talvolta si fa vedere, la voglia di non essere etichettati come ignoranti. Alla fine sono artisti, per lo meno vorrebbero esserlo, e l’arte è cultura. Sotto sotto un po’ lo comprendono (e io sono a dir poco assillante su questo punto).

A inizio novembre nessuno consegna la scheda di Utopia. Lascio altro tempo.  A inizio dicembre finalmente arriva, quasi da tutti. Si apre una discussione infinita, sono scatenati e coinvolti anche se di Utopia c’è effettivamente poco. Però capisco che l’hanno letto veramente. E l’hanno anche apprezzato. Ci hanno ragionato. Qualcuno di loro intuisce l’inconsistenza delle proprie affermazioni “prof. siamo delle capre”. Mi viene da ridere e cerco di rassicurarli. “State recuperando il tempo perduto”.

Ma come? Lo vedo anch’io che apparentemente andiamo avanti, i programmi procedono in modo del tutto impensabile fino a un mese fa, ma lo scatto verso la conoscenza non c’è stato. Sono lontanissimi da questo.

Come posso fare?

Intanto inizio a trasformare a modo mio il programma d’italiano, modificando le letture antologiche, troppo frammentate, con letture integrali che si muovano anche oltre l’Italia: Inghilterra, Francia, Spagna, cerchiamo di abbracciare questa Europa così affannata in età moderna e vediamo se anche il senso della diversità storica inizia ad affiorare.

Poi un giorno vedo un dépliant: concorso di storia.

Il mio pensiero inizia a correre, se tutto ciò che è possibile non funziona, va assolutamente tentata la via dell’impossibile.

Arrivo a scuola con un progetto ben definito nella mia testa e glielo espongo. Sono presa da un entusiasmo contagioso, anche se all’inizio tentano di resistere. Mi guardano con un sospetto inusuale. Sembrano aver annusato che c’è una trappola nascosta, e cioè più lavoro.

Lo presento in modo diretto: “Ragazzi, partecipiamo a un concorso”.

“Che concorso prof. dai, ma ti pare? Noi?”

“Di storia ragazzi”.

“Cosa??? Noi? Di storia, sì vedrai!”

“E partecipiamo per vincere”.

“Sì! e cosa?”

“La gloria”

“Ehhhhhhh”

“E dei libri”

“No, prof., dei libri no per favore!”

Però sotto sotto sono già curiosi. E poi stuzzicati dall’idea di entrare in competizione con altre classi che parteciperanno a loro volta. E altre scuole.

A fine ora abbracciano il mio stesso entusiasmo “prof. certo che vinciamo”.

E la nostra avventura comincia. Decido che devono conoscere biblioteche e archivi. Divido in gruppi e in compiti e li mando chi in un posto chi in un altro con precise indicazioni. Passa un mese e il risultato è sconfortante. Sono andati, sì, ma la loro conclusione è che biblioteche e archivi non contengono nulla d’interessante. Non parlano. Non dicono assolutamente niente. Nemmeno i carteggi, “non c’è niente prof.: giri inutili”.

Forse l’impossibile è impossibile e basta.

Come possono dire “non c’è assolutamente niente” con una tale sicurezza sconcertante? Vorrebbero convincere me di questo. Poi forse focalizzano meglio il problema.

“Prof. ma come si fa a cercare materiali, scrivere una sceneggiatura, girare un film, non ce la facciamo!” Piano piano si adagiano in un ‘non riusciamo, non capiamo’ e lasciano passare il tempo. Li ho caricati troppo e di un compito troppo grande per loro.

Decido che devo prendere in mano la situazione e svegliare la loro assurda apatia. Così in archivio ci rivado io e pure in biblioteca; raccolgo il materiale essenziale per poter intrecciare la vita di un personaggio storico con la storia locale nell’Ottocento. Poi però mi manca l’idea per scrivere la sceneggiatura. È un lavoro immane. Alla fine arriva. E la sceneggiatura è pronta.

La mattina, a scuola, la consegno alla classe; ma prima di leggerla cerco di far capire come ho proceduto, tutti i passaggi che ho seguito per arrivare fin lì. Mi seguono diligentemente e senza entusiasmo. Sempre più sconfortante.

Qualche giorno dopo uno di loro parla a nome di tutti: “prof. è una noia, non funziona, non può essere un film”. Cerco di non arrabbiarmi e di farli parlare. Ancora la solita, terrificante apatia.

Ma ad un certo punto, qualcosa si muove. Quello che a detta di tutti, colleghi e ragazzi, avrei dovuto considerare il mio peggior allievo, ma per il quale invece ho sempre un’attenzione particolare, perché vedo in lui capacità del tutto disattivate, in stand by per così dire, si alza in piedi.

“No raga, funziona, è forte. Guardate qua. Va’ al computer, cita film che tutti naturalmente conoscono alla perfezione, li intreccia con stili documentaristici e inizia a spiegare come lui girerebbe il film. Inizia, senza averne ancora consapevolezza, a far giocare la storia con la sua passione, la regia. Un altro lo ascolta, si lascia coinvolgere e inizia a pensare alle inquadrature e a ipotizzarle. Infine quello che aveva parlato a nome di tutti, cambia idea e comincia a interagire proponendo delle modifiche alla sceneggiatura per renderla “più filmica”. “Che ne dice prof?”

“Benissimo”. Li interrompo. “A questo punto abbiamo regista, macchinista/tecnico delle luci e sceneggiatore”.

Gli altri si arrabbiano “lui non può fare il regista”. “Perché no ragazzi? e comunque, questo lo decido io”.

La mia decisione è vista malissimo e anche vari colleghi mi criticano. “La regia a lui? Sei pazza? Non puoi fidarti. Tu sai che se falliscono perderanno per sempre quel poco di autostima che hanno?”. È vero, su quest’ultimo punto hanno ragione. Ma non voglio fermarmi e nemmeno cambiare le mie scelte. Però sono indecisa e preoccupata.

I ragazzi a questo punto mi vedono abbattuta per la prima volta. Incredibilmente diventano in quel momento una classe: “prof. tranquilla, ci siamo noi; siamo bravissimi almeno in questo. Vedrà, ce la faremo”. Iniziano a spiegarmi tutti gli aspetti tecnici che davvero non conosco. Mi lascio guidare e loro ne sono orgogliosi. Sceneggiatura, story board, costumi, piano di produzione, sceneggiatura tecnica, location, riprese, montaggio… tantissime cose, tutte da organizzare. E organizzano. A me gli aspetti burocratici, infinite perdite di tempo (permessi su permessi, tempi di attesa e di nuovo permessi).

La follia prende forma.

Siamo una squadra, però, e questa è una bellissima sensazione. Ma la fatica più grande deve ancora arrivare. La classe infatti non esiste, solo a sprazzi riesce ad essere un gruppo con una meta comune, di solito sono l’uno contro l’altro. Lasciati soli, senza una guida che li trascini, tutto il peggio riemerge, l’obiettivo svanisce. Devo continuamente riportarli in carreggiata, altrimenti si perdono, litigano, manderebbero tutto all’aria in un attimo. Lo sconforto è grande, ma non possiamo fermarci. Siamo insieme mattina, pomeriggio, sabato, domenica. “Ma di notte no, ragazzi, le scene notturne ve le girate da soli!”

Mi prendo la responsabilità di lasciare loro tutte le attrezzature, il prof. di audiovisivi mi sostiene con tacito consenso. Loro sono bravissimi, si prendono cura di tutto con precisione e puntualità. È un passaggio importantissimo, si sentono grandi.

“Tranquilla prof., queste cose le sappiamo fare”.

Ed è vero, sono proprio grandi.

Qualche piccolo inciampo arriverà di nuovo, perché quando finalmente lavorano bene insieme, dimenticano i contenuti e li cambiano allegramente secondo il gusto del momento o per avere la scena più a effetto… Li riprendo e ci ritroviamo a rifare scene su scene, con loro che sbuffano, presi controvoglia a correggere alcuni errori eclatanti… altri, meno importanti, li lasciamo (e spero dentro di me che nessuno li noti!).

Il protagonista, già forzato con forti sfumature romantiche nella mia sceneggiatura, nella loro versione è diventato un vero e proprio eroe romantico, un protagonista di epiche battaglie! Pazienza…

Consegniamo tutto al preside. È entusiasta e divertito dalla forzatura romantica, evidente che si tratta di una concessione narrativa. “Fantastico!” Ma vuole essere rassicurato “Storicamente è corretto?”

Sono un po’ titubante ma cerco di non farlo vedere “Sì certo, solo qualche licenza poetica, diciamo”. Perché comunque il senso viene reso, il periodo storico, un’atmosfera particolare, non quel presente dilatato che vedevo prima nei loro occhi, ecco adesso finalmente viene fuori.

Il preside organizza una proiezione per tutte le classi che possono stare in aula magna, grande giornata, un mediometraggio di 35 minuti, il più lungo mai girato nella scuola, con il protagonista che muore al suono de La campanella di Liszt. Grandissimi applausi.

E così, l’anno è finito.

Qualcuno esce con successo, altri no. Qualche rimandato sarà bocciato a settembre. Qualcuno di loro, agitato e deluso, mi contatta davanti ai cartelloni. “Io mollo prof., mi trovo un lavoro, per le riprese mi cercano tutti”. Talvolta riesco a convincerli a rimanere, altre no.