Diario di scuola (IV)
Alessandra Avanzini
- Il Cavaliere bianco.
Alice di tanto in tanto si doveva fermare per aiutare il povero Cavaliere,
che non eccelleva certo nell’arte di cavalcare. Tutte le volte che il cavallo si fermava (il che accadeva spesso), lui cadeva in avanti; e tutte le volte che quello ripartiva (il che di solito avveniva piuttosto all’improvviso),
lui cadeva all’indietro
Lewis Carroll
In questo periodo sto andando sempre più confermando a me stessa che noi docenti, o meglio alcuni di noi (non posso parlare per tutti perché non sarebbe realistico né corretto) sono super-eroi. Ma di un tipo strano, molto anticonvenzionale – siamo supereroi senza poteri né difese, che mettono ogni volta in campo tutto ciò che sono, a rischio di perdersi. E questo nella complessa sfida di ritrovarsi e permettere a loro, a quei ragazzi a volte così distanti, di incontrare se stessi. Una missione? Sì, non ci sono dubbi, chi l’ha detto che insegnare non è una missione, ma un mestiere come un altro? È qualcosa di molto molto diverso – certo lo si può fare in tanti modi, si può abdicare e decidere di essere dei tecnici, competenti, che insegnano nozioni e trasmettono cultura. Ma già il discorso fa acqua da tutte le parti – la cultura non si trasmette, o la facciamo nostra o è tutto soltanto un bluff. Si può farlo distrattamente perché uno stipendio arriva e ci lascia un po’ di tempo se prendiamo la cosa con superficialità. D’altra parte individui irresponsabili ci sono in tutti i settori.
Però chi ama fare il docente è un super-eroe perché ha a che fare con la costruzione esistenziale degli altri e di se stesso. Non è un gioco. È una cosa terribilmente seria. Anche se la si può fare in modi divertenti. E poi è pagato in modo ridicolo per lo sforzo enorme che fa. Una cattedra di 18 ore a settimana ti impegna dal mattino alla sera, a casa e a scuola e i weekend sono travolti da compiti da correggere, lezioni da preparare, libri da leggere e da studiare se non vuoi essere il docente che, dopo anni di servizio, ripete meccanicamente ciò che diviene sempre di più un vago ricordo.
Ma il motivo per cui il docente è un super-eroe è un altro: il fatto è che mette se stesso in campo, mostrando che è possibile superare problemi e difficoltà anche se fa male. Il super-docente mette in gioco la propria fragilità. Non è una guida autoritaria e solenne, è solo una piccola guida, che non fa che sbagliare, probabilmente; cade da cavallo in continuazione e ha un disperato bisogno dei propri allievi per rimontare in sella e fare un altro po’ di strada. La cosa bizzarra, però, di questo super-eroe anomalo è che, se i suoi allievi se ne vanno o gli voltano le spalle, lui sospira e sta in sella da sé, vacillando, insicuro e deciso insieme, verso un obiettivo. Se così non fosse, se non sapesse comunque stare in sella da solo, non potrebbe mai insegnare, perché lo farebbe in modo pessimo.
Sì, il docente è una figura solitaria, deve sapere la strada e percorrerla da solo, proprio come Mary Poppins, arriva dove c’è bisogno e quando le cose vanno meglio, auspicabilmente, se ne va; per ricominciare sempre da capo, affezionarsi per allontanarsi in continuazione. Ci vuole un grande equilibrio, una grande forza interiore e in qualche modo la malinconica consapevolezza che andare via ad un certo punto è necessario, che cavalcare da soli, cadere da soli, con tutta la paura e anche il panico che ciò comporta, è una delle principali capacità del docente, che, come dice il cavaliere bianco, conosce benissimo l’arte del cavalcare, e dicendolo cade di nuovo a testa in giù. Ma non importa, cosa importa dove è il mio corpo, se la mia mente continua a pensare?
Il docente è una contraddizione. Un paradosso.
Oggi, con la didattica a distanza applicata come unica possibilità per salvare la scuola, il suo eroismo si sta elevando fino al totale sacrificio di sé – costretto a vivere la frustrazione di una relazione che va completamente ripensata. E non può tirarsi fuori, astenersi dal farlo. Se vuole continuare ad essere un docente.
In questi mesi, infatti, il nostro mondo è stato messo completamente sottosopra: ci è stato imposto di chiuderci in casa, non possiamo uscire se non per motivi ‘importanti’, come ad esempio fare la spesa, e muniti di regolare permesso; la scuola, da più di un mese, non è più in presenza, ma a distanza, raccontata e vissuta da un tavolino, nel mio caso sistemato sotto la finestra, in veranda, almeno per darmi l’idea che davanti a me c’è ancora aria, spazio, sole. Alle mie spalle, una libreria.
Avevo letto scenari come questi solo nei libri, a proposito di periodi di guerra e mi sembravano scenari da incubo, ma quasi irreali per quanto distanti – ricordo che soffrivo da bambina con Anna Frank, non solo per come sarebbe finita, ma per quei giorni passati così, chiusa in quella stanza a guardare il mondo da lontano, un sogno nella mente e una totale sospensione dalla realtà tra le mani.
Eppure è successo.
Ma non è una guerra, è un virus. Un virus che fa paura, perché nonostante ci sentiamo così evoluti, un virus non lo sappiamo ancora fronteggiare. Abbiamo creduto di vivere in un eterno presente, cancellato la storia, dimenticato che riflettere per ipotizzare il futuro e cambiare le cose, prima che ci travolgano, è un dovere di un mondo civile.
Non riusciamo a trovare un vaccino, non siamo organizzati per curare le persone negli ospedali. Preghiamo di stare bene, perché nessuno ci potrebbe aiutare. Almeno questa la percezione comune.
Cosa ci rimane allora?
L’illusione di un mondo chiuso dentro i nostri telefoni, i nostri computer, un mondo che non possiamo toccare, ma solo guardare a distanza, cercare di raggiungerlo con una parola che fatica ad esprimersi perché non sente il calore umano di chi la riceve. La prima sicurezza è il fraintendimento. Come facciamo a capire che il nostro allievo, il nostro amico, chiunque sia oltre quel telefono, oltre quel computer capisca cosa noi stiamo cercando di dire? Non ne abbiamo alcuna possibilità.
Tutto questo manda in crisi, o meglio dovrebbe costringerci a rivedere tanti aspetti di un mondo che ci ha portato fino a qui; da un punto di vista educativo mi pare il ruolo della scuola possa e debba riacquistare tutta l’importanza che da ogni parte le viene da tempo negata. Perché è uno dei pochi spazi di socialità, pur deformata, ma rimasta. Al contempo, però, sta rischiando di sgretolarsi dalle fondamenta, non regge più. Chi può salvarla? Il nostro super-eroe, l’insegnante, abituato a convivere con la propria fragilità, a non vergognarsene, a usarla come ponte per permettere ai ragazzi di non avere paura e ascoltare se stessi, il loro desiderio di conoscere (che è nascosto, ma sempre presente, va solo catturato).
Da tutte le parti si leggono propositi eroici di chissà quali cambiamenti, ma perché?
L’eroe ce l’abbiamo già, il docente, abituato a lottare da tempo contro mulini a vento, che vede solo lui e in cui solo lui ostinatamente crede. Cosa sarà mai lottare con uno schermo che nasconde volti ed emozioni di ragazzi, che non sono mai sembrati così distanti? Pane per i suoi denti, una sfida tutta da vivere.
Ma già dopo un paio di settimane estenuanti di superlavoro, il nostro supereroe sta perdendo le forze e si fa delle domande. Che senso ha tutto questo? Come posso fare a costruire qualcosa? Esiste, è possibile una relazione educativa a distanza?
La fragilità del docente non può essere raccolta dal ragazzo, che ci vede in un mondo virtuale. È necessario trasformare la virtualità in realtà. Come?
Questa è la vera sfida, altrimenti la scuola è meglio chiuderla.
- Nel caos.
O dolci sguardi, o parolette accorte,
or fia mai il dì ch’i’ vi riveggia ed oda?
Petrarca
In crisi, infatti, è l’idea stessa di scuola. È incredibile, ma questa modalità virtuale fa esplodere i problemi della scuola che c’è sempre stata. Perché prima la scuola era salvata dal contatto umano, da una relazione che, quasi per caso, a volte si realizzava e i ragazzi talvolta abbracciavano l’entusiasmo del conoscere, bellissimo regalo per i loro docenti. Ma affinché questo fosse possibile bisognava (e sembra assurdo!) resistere alla scuola, a come essa era pensata; a come, quasi per inerzia, andava trascinando se stessa.
Questo particolare momento, purtroppo, ha, però, dato anche il la per improvvise e, davvero, troppo diffuse illuminazioni. Tutti adesso scrivono, esplodono in stupefatte rivelazioni, sembra quasi che si tratti di una provvidenziale catastrofe che ci sta aprendo gli occhi. Ma non è così. Non è cambiato niente. E non c’è niente di provvidenziale in questo dramma. Il fatto è che ora siamo davvero in difficoltà, non riusciamo a fare ciò che abbiamo sempre fatto, sopperire, appunto, con la nostra umanità a un problema strutturale. Ci chiediamo come continuare ad inseguire i nostri ragazzi, ad essere con loro e a condividere questo momento difficile, ma nello stesso tempo sentiamo che dobbiamo fermarci e riflettere. Ora più che mai sono due le cose che dobbiamo riuscire a fare insieme: continuare a fare scuola e fermarci a pensare su di essa. Qualcosa va rivisto. La tanto decantata scuola della prassi, pessima eredità della scuola attiva di inizio Novecento, guarda se stessa disarmata e capisce, forse per la prima volta, che ha bisogno di un’idea, ma non può più darsi il tempo di pensarla. Il fare si mescola al pensare e il caos, per tanti aspetti, ne è il risultato. Esattamente come prima. Tutti chiedono una scuola rinnovata, ma non lo sarà a meno che, prima, non ci sia stata già dentro qualcuno di noi una vera, sincera idea di quello che sarebbe dovuta essere.
Da ogni parte spuntano pseudoidee improvvisate; sulla cresta dell’onda, la polemica contro le classi pollaio, ma che brutta espressione; io le ho presenti, concretamente davanti ai miei occhi, le mie classi di 30 ragazzi e sono tutt’altra cosa che un pollaio, sono tanti sì, ma in tanti casi sono affiatati, si vogliono bene, lavorano insieme… e la prospettiva è dividerli? Ma su quale base? Come scegliere chi farà parte di una classe chi di un’altra? E perché? Per un virus che non si controlla? Ma allora è meglio continuare a casa e aspettare finché il virus non sarà messo ko. Non vale la pena aggiungere al rischio della salute quello della serena convivenza, non vale la pena correre il rischio di spezzare amicizie che nella scuola trovano forte alimento quando, per eventi fortunati e casuali, si creano. Certo, quando si fanno nuove classi, le future prime, proviamo a contenerci; ma questo è da secoli che si dice, classi con un massimo di 20 allievi si gestiscono meglio, si lavora meglio. Bene, cogliamo l’occasione, senza passarla per illuminazione.
Su internet si legge di tutto, riflessioni estemporanee, buttate online, dove non scopriamo niente di nuovo, al contrario la solita vecchia logica di un pensiero incatenato alla difesa del proprio piccolo mondo. C’è chi esalta la didattica a distanza come una nuova via, quando non è una nuova via, ma un terribile necessario ripiego e prima finisce meglio sarà per tutti. Eppure ad essa ci si aggrappa come se nascondesse segrete ricette per salvarci da ogni vecchio problema: quante idee nuove! Costringe i docenti a ripensare l’insegnamento! Frasi sorrette da uno sguardo sprovveduto spuntano da ogni dove.
Io mi sono trovata, certo, a rivedere il modo con cui mi rapporto con i miei ragazzi, a rivedere di necessità quei programmi scolastici, da sempre intoccabili, ma riprendendo, con più forza e con un certo margine di libertà in questo caos, le mie stesse idee. E tutto questo senza averne il tempo, perché non posso fermarmi, devo continuare a fare lezione, e così ho fatto dal 24 febbraio, da subito, come tutta la mia scuola. Cerco di pensare e di muovermi in un mondo che ha perso sostanza di realtà e vedere cosa può rimanere, cosa mi può dare e cosa posso offrire dalla lontananza di una parola senza corpo. Ci muoviamo in un mondo di ombre, ma quelle ombre hanno voglia e bisogno di comunicare come se fossero reali, hanno bisogno di costruire un contatto umano, un ponte che le faccia uscire da se stesse e credere che sia possibile andare incontro a un senso, a una direzione.
Ecco allora per disordinati punti, come disordinato è il pensiero in queste settimane, quello che ritorna di vecchi pensieri, di riflessioni a lungo portate avanti nelle mie ricerche, ma che hanno sempre trovato l’ostacolo della realtà:
- la fissità del banco – dobbiamo superare l’assurdità di quella immobile costrizione che vedeva i ragazzi seduti in forzato silenzio per cinque ore, in un’aria che a pensarla oggi fa paura per quanto contagio potrebbe creare. È bene muoversi dentro la scuola. Se si muovono le idee, si devono muovere anche i corpi. Nelle mie lezioni il clima era sempre molto tranquillo, non ho mai preteso né immobilità né assoluto silenzio, al contrario vivacità, serenità, partecipazione. Tutto questo me ne dà ulteriore conferma;
- il comportamento e l’assurdo voto di condotta – La scuola deve essere vissuta, partecipata, non siamo noi a dare modelli, non siamo noi adulti a dovere né tanto meno potere imporre come ci si deve comportare. Il comportamento è un patto di reciproco rispetto: da parte dell’allievo, che ascolta e partecipa, da parte del docente, che non può usare il voto come arma del terrore per manifestare un vacuo desiderio di potere. Mi vengono in mente le parole di Guus Kujier, che non sono gli adulti a poter dire ai bambini, ai ragazzi cosa devono fare, perché anche noi stiamo vivendo per la prima volta e non siamo capaci di farlo. Anche noi docenti. Quella classe la vediamo per la prima volta e non vale ripetere moduli o modelli già applicati, bisogna rinnovarsi ogni volta in un nuovo confronto, in un nuovo dialogo. Anche per questo, fare il docente è faticoso, e spesso quando si è troppo giovani non si riesce. Appena laureata ho insegnato per due anni in una scuola secondaria, ma il mio istinto ogni giorno era scappare; sentivo che non avevo la forza interiore sufficiente per essere davvero con loro, per essere davvero l’insegnante che avrei voluto essere e che loro meritavano, ognuno di loro. E non per mancanza di conoscenze. Perché il docente non va a scuola né per fare il guardiano e nemmeno il comunicatore di conoscenze, ma per essere con i propri ragazzi; e deve trovare la strada verso di loro insegnando il senso di responsabilità come atto spontaneo e motivato. Come sosteneva Montessori, il comportamento è una guida interiore che deve venire dallo studente, non può essere imposto in modo coercitivo, non con voti, note, sospensioni… Sono strumenti che tengo lontani dal mio fare scuola perché deresponsabilizzano e scaricano sul docente il compito di individuare il limite quando viene superato. Ma il limite lo devono avere loro, devono riuscire a darselo da soli;
- la valutazione – Non importa mettere voti, giudizi o lettere; è il senso del valutare che deve trasformarsi profondamente mentre il cuore del momento scolastico diventa un altro;
- la motivazione – Quella che il docente supereroe riesce a dare, quella che il ragazzo riesce a conquistare. Si valuta per dare valore, per aiutare l’alunno a motivare se stesso, ad essere felice di passare attraverso la porta che lo farà entrare in classe a raccontarsi con i propri compagni verso nuove avventure prevalentemente teoriche, dentro mondi astratti che non esistono da nessuna parte se non nel pensiero, e dal pensiero arrivano principalmente passando attraverso i libri e lo studio;
- lo studio – a scuola ci si va per studiare e non per fare. Lo studio è ciò che aiuta l’animo umano a scoprire dentro di sé nuove dimensioni, nuovi mondi, nuove vite. Come diceva Eco, è molto più ricco e ha vissuto molto di più chi ha letto tanto perché il suo tempo, la sua esistenza si sono dilatate aprendo ad altre vite, ad altri tempi; la sua interiorità è diventata più ampia e profonda, la sua mente più libera e aperta e disposta al dialogo e al confronto.
A questo punto o riusciamo a trovare il modo affinché gli studenti affrontino lo studio per il semplice fatto che trovano in sé il desiderio di farlo e il motivo per alimentare la propria curiosità, oppure è il senso stesso della scuola, ma non di quella virtuale, della scuola come istituzione, che di fronte a questa immagine di sé allo specchio deve ammettere di aver fallito.
Cercando allora la mia classe oltre i riquadri di meet grid, vedo davanti ai miei occhi queste idee che mi passano nella mente in ordine sparso, vedo la parola, che ho sempre ritenuto strumento fondante nella scuola, frammentarsi e assottigliarsi in parola vuota, senza un corpo a darle anima e valore, ancora di più vedo figure che diventano evanescenti, e capisco che devono assolutamente cambiare, mescolandosi con le idee disordinate che corrono nella mia testa e che ho appena esposto:
– la figura del docente, che deve essere autorevole e non autoritaria, deve muoversi con grazia nel mondo dei ragazzi e mettersi in gioco per primo a fare quello che chiede loro di fare, deve anche essere un esempio;
– i programmi, che devono essere messi necessariamente in discussione; se una scuola nozionistica non aveva senso prima, ora è addirittura risibile; sempre di più penso al corso monografico, il vecchio corso monografico delle lauree quadriennali, come la sola salvezza della scuola. Permette al docente di farsi interprete del sapere, anzi glielo impone – o interpreta con la sua testa o non riesce ad essere docente; permette al ragazzo di non spaventarsi di fronte a manuali imbottiti di nozioni inutili e di concentrarsi su angoli di umanità tratteggiati in quello sforzo interpretativo; mostra con il proprio lavoro che studiare non è mandare a memoria nozioni indiscutibili, ma mettere al centro la propria capacità interpretativa, e passa, con questo, un messaggio strutturale, e cioè che l’unico valore che ci deve guidare è la nostra condivisa umanità;
– i manuali. Basta manuali, meglio un libro e un autore che magari dopo anni ti ricorderai perché scoprire che leggere Goldoni– che è del Settecento!– può essere divertente o buttarsi nelle poesie d’amore del Canzoniere ti fa sentire che anche Petrarca condivideva qualcosa del tuo mondo; frammenti, stralci di brani, noiosi commenti critici non portano nessuno da nessuna parte e non creano curiosità. Il volto pratico del sapere è la lettura: da lì si entra nel mondo virtuale, ma autenticamente vero, che l’umanità ha costruito nel tempo;
– la valutazione: non può esistere se non intesa come “dare valore”; è, infatti, il ragazzo per primo a dover valutare se stesso e a imporsi dei traguardi da raggiungere, a motivarsi ed autoeducarsi;
– i tempi e gli spazi della lezione: non possono essere ancora considerati come quando sono stati pensati, nell’Ottocento. Non possiamo continuare a costringere i ragazzi all’immobilità per poi farli sfogare in attività extracurriculari: una modalità come questa insegna strutturalmente una logica schizofrenica, dove l’equilibrio e la responsabilità non sono necessarie perché affidate a paletti gestiti da altri;
Alla base di tutto questo, va ribadito: la motivazione. Non ha senso continuare a concepire il docente come il guardiano. Tutto della scuola di oggi fa pensare ad una sorta di prigione: regole su regole, divieti su divieti…, ma perché non partire da cosa si può fare insieme piuttosto che da cosa non si deve fare? Non sto parlando di una scuola sul genere di quella di Alexander Neill totalmente libera all’aperto, dove ognuno imparava a leggere e scrivere quando riteneva venuto per lui il tempo; una guida ci vuole e una direzione ovviamente va suggerita. Ma non imposta. È un necessario rovesciamento di mentalità per perseguire un obiettivo fondamentale, un mondo costituito di uomini che sappiano pensarsi e cercarsi come tali, responsabili di se stessi, spinti alla ricerca di un mondo migliore. Non annoiati individui forzati sui banchi per ore e che non riescono in nessun modo a comprendere perché dovrebbero spendere parte della loro giovinezza stando sui libri.
Non lo devono fare, ma lo dovrebbero desiderare. Questo è il punto. Ma lo era anche ben prima che questa didattica a distanza facesse esplodere la questione.
- La ricerca di un ordine.
Ciò che è in gioco oggi
è il pericolo d’un restringimento della nostra visione,
una sorta di glaucoma mentale
Erwin Schrödinger
A gennaio se ne era avuto un vago sentore, notizie lontane dalla Cina, ma era già successo, con la Sars I, e nessuno, me compresa, credo abbia preso la faccenda sul serio. Poi, come un fulmine a ciel sereno, dal 24 febbraio le scuole sono state chiuse, prima per una settimana, poi per due, e oggi, che è il 5 maggio, sono passati quasi due mesi e mezzo dalla chiusura.
Quest’anno le mie classi sono quattro, in tre delle quali insegno italiano, in due storie. Liceo scientifico e sportivo. Fin dal primo giorno mi sono resa conto che, se quattro classi sono tante in presenza, a distanza sono un’infinità. Il nostro dirigente, immediatamente, la domenica prima dell’inizio, ci ha annunciato che la nostra scuola non si sarebbe fermata, ci ha chiesto di tenere i contatti con i ragazzi, di attivare meet o simili, ma di essere presenti con loro. L’ho trovato giusto, però anche massacrante per noi. Si è trattato di riorganizzare tutto, senza tempo per pensare, di agire senza riflettere, sostanzialmente di seguire l’istinto e cercare di non perdere nessuno. Siamo stati aiutati in questo enorme e drastico cambiamento, il nostro dirigente ci ha accompagnato, fin dall’inizio, con due mail giornaliere, una al mattino e una alla sera, ogni giorno, con solo la meritata pausa delle vacanze pasquali, e continua tuttora a darci il ritmo. Una piccola cosa, un gesto che comunque ha saputo creare una certa coesione tra tutti, e dare un’indicazione su come intraprendere un percorso che è prima di tutto una nuova sfida educativa.
Così, cercando di interpretare quello che ci veniva chiesto, le mie idee e la stranezza drammatica della situazione, ho cominciato a scrivere lezioni di italiano e di storia, fare delle sintesi interpretative mie, come faccio di solito in classe, dialogando. All’inizio non volevo accettare l’idea di parlare con i ragazzi da una videocamera, mi angosciava l’idea di questa privazione di presenza; ho accolto il motto della scuola, assenza più viva presenza, facendomi viva, a mia volta, con mail continue, parlando con i ragazzi a distanza. Ma subito le classi sembravano lievitare ancora, perché improvvisamente non avevo più davanti delle classi, ma tanti ragazzi uno diverso dall’altro e ognuno di loro aveva una domanda diversa, un problema diverso, un’esigenza diversa.
Poco a poco, e piuttosto velocemente, dopo consigli via meet e discussioni in chat, come scuola, siamo arrivati a pianificare un orario: 50% delle ore previste in presenza come lezioni a distanza e il resto diviso tra lezioni asincrone, videolezioni e attività decise dal docente.
Abbiamo fatto i regolari consigli di classe previsti, aggiungendone anzi alcuni per coordinarci prima da soli come docenti, quindi anche con i genitori, abbiamo svolto attività scolastica proprio come se la scuola non si fosse mai fermata. Anzi da noi la scuola non si è mai fermata.
Che bravi.
Eppure qualcosa dentro di me mi impedisce di parlare di questa esperienza come di qualcosa di positivo, qualcosa che mi ha lasciato un segno, uno stimolo su cui riflettere. Anche se forse in modo un po’ drastico, perché mi è difficile parlarne tanto è calda ancora e pesante la situazione, provo, senza preciso ordine logico, ad elencarne i motivi.
Mi verrebbe da dire, forse esagerando, ma nemmeno più di tanto, che non mi ha lasciato niente, o meglio non mi sta lasciando niente, perché non è ancora finita – solo la nostalgia della presenza in classe coi miei ragazzi, sì in quelle bellissime classi pollaio piene di vita e di risate, la voglia di tornare a scuola e far ripartire le nostre discussioni infinite sulla pena di morte, sul contrasto individuo/società e sentirmi dire “prof. ma a che serve discutere?”, e vederli che si scatenano uno con l’altro, talvolta anche uno contro l’altro, per poi rappacificarsi con un gesto, una risata, e rivederli indisciplinati e chiacchieroni, e arrabbiarmi, quando mi fanno arrabbiare, e ridere con loro subito dopo, perché nessuno dei miei allievi ci crede che io sia davvero arrabbiata… non ne sono mai stata capace, perché poi mi scappa di vedere il lato umano in ogni persona e la rabbia scivola via. Ma come si fa tutto questo nella distanza di uno schermo?
Mi ha lasciato, questo sì, il desiderio di buttare via tutti i computer non appena sarà possibile ricominciare, mi ha lasciato la convinzione che i programmi sono sbagliati, ma lo pensavo anche prima, e che l’italiano non s’insegna così come ci dicono quei libri, che il docente è il primo interprete del sapere in classe, ma lo pensavo già prima, e che subito dopo ci sono loro, ognuno dei miei piccoli grandi allievi a dover diventare consapevole costruttore di cultura. L’italiano s’insegna facendo leggere e leggendo, e discutendo su quello che si è letto, diventando lettori, lettori veri, che danno vita al libro; e scrivendo, scrivendo i nostri pensieri le nostre idee e non scrivendo faticosi e irreali temi argomentativi, saggi brevi, analisi del testo … ma racconti; l’italiano s’impara quando impariamo a raccontare, quando sappiamo farlo a voce e quando sappiamo farlo scrivendo.
E così ho provato a fare. Per dare valore a questa esperienza e giocando un po’ con quei margini di libertà che ci lascia – rendiamo più elastici i programmi, ci siamo detti nel consiglio di Dipartimento di lettere. Fantastico! Programmi più elastici vuole dire che sono più libera.
E così ho provato a improvvisare secondo quell’idea. Non che argomentare, riflettere criticamente non sia importante, ma il primo strumento alla base di tutta la riflessione critica è il saper raccontare, perché narrando accadono tante cose e ci s’impadronisce di tanti strumenti: si riesce a costruire un mondo altro, nuovo e vero, differente rispetto a quello reale; si riesce concretamente a dare vita a qualcosa che non sarebbe dovuto esistere; si asseconda la fantasia e la si fa rinascere; s’impara la logica perché senza logica non c’è racconto che regga, il filo si perde, la struttura non regge; si esprimono le emozioni, perché raccontando si può dire tutto senza spiegare niente, niente di quello che ci dà fastidio, e ci rimane dentro come un peso insopportabile; s’imparano ad usare i tempi verbali perché senza tempi correttamente correlati non c’è struttura che stia in piedi; s’impara ad uscire dalla banalità dell’apparente elencazione oggettiva di come sono andate le cose, per entrare nella magica possibilità di come potrebbero andare, si impara a cercare universi desiderabili o temibili…; insomma, alla fine, per come la vedo, s’impara a pensare. E ancora di più si scrivono cose in cui si crede, non temi per finta per far vedere quanto si è bravi.
Tanti fanno fatica a scrivere racconti, per poterlo fare bisogna leggere, leggere tanto; e poi c’è magari chi scopre di essere più portato per il monologo teatrale, che deve comunque essere raccontato, per la narrazione descrittiva, per il racconto d’avventura, oppure per una narrazione tipo stream of consciousness; in tutti i modi nel raccontare i ragazzi cercano se stessi, la propria particolare modalità per esprimersi. Non cercano modelli artefatti, non copiano i saggi giusti.
Perché non c’è un racconto giusto; ci può essere solo un racconto tuo.
Piano piano sto provando a portarli verso la descrizione artistica, leggendo esempi di descrizioni, o facendoli trovare a loro; in quarta abbiamo usato Manzoni e ci siamo esercitati sulla descrizione in stile manzoniano. In prima abbiamo letto La maschera del cattivo di Brecht e i ragazzi hanno provato a descrivere con piccole, brevi pennellate.
Insomma abbiamo cercato la logica e l’arte, provando a tenerle unite. Provando a dare valore alla parola.
Ho pensato di buttare all’aria il manuale e di leggere un’opera per autore, chi se ne importa della parafrasi, buttiamoci nel Petrarca, nel Canzoniere e magari qualcosa riesce ancora oggi a raccontarci; La locandiera, La Mirra… Un autore, un’opera. Qualcuno si diverte, qualcuno protesta; tutti ci si confrontano. Non ci sono letture critiche. Prima bisogna leggere.
Avevo una grande docente di italiano all’università che ci ha fatto leggere moltissimo, senza manuali, senza testi critici, non almeno per il primo esame. Il primo incontro con i testi deve essere libero e sincero, guidato solo dallo sforzo di incontrarlo, questo autore.
Ancora in quarta ho introdotto l’ora libera di letture condivise; ho chiesto loro se erano d’accordo e ho trasformato una delle ore su meet in un’ora in cui a loro viene richiesto massimo impegno sulla scrittura, ma nessuna aspettativa di voto perché li valorizzerò ma non darò voti. Ho detto che la frequenza era libera, potevano anche non partecipare. Partecipano tutti, anche se non tutti scrivono. Però è bello che continuino a partecipare, a commentare i lavori dei compagni, a raccogliere brani d’autore per leggerli insieme (ho detto che, se non si sentivano di scrivere cose loro, potevano fare anche questo, cercare cose belle scritte da altri da leggere insieme).
La sfida educativa è questa: trasformare la scuola da obbligo in diritto, trasformare il docente da guardiano a soggetto e anima della relazione educativa, puntare sull’idea di gratuità, che sorregge e alimenta ogni tipo di relazione per creare una reale motivazione della loro presenza.
Ne stanno uscendo bellissime storie, tutte differenti. E ora ho voglia di pubblicarle, tutte insieme, per costruire il ricordo di questi mesi. Parteciperà anche la nostra ragazzina speciale, e sono molto curiosa di vedere cosa scriverà per noi.
Insomma la sfida è uscirne immuni ed è una sfida complessa e stancante; nonostante i ritmi apparentemente rallentati dei programmi, non c’è un minuto in cui la testa riesca a liberarsi e a lasciar scivolare i pensieri, come dice la mia bravissima insegnante di sostegno.
Il ministero non ci sta aiutando: da tempo ha annunciato che i ragazzi saranno tutti promossi – questo ha demotivato tutti quelli che non avevano alcuna voglia di impegnarsi e tolto a noi ogni possibilità di raggiungerli. Se spiegare che senso ha la scuola è difficile sempre, con questa promessa distorta ogni nostra parola viene guardata con un sorriso misto tra compatimento e derisione, in un mondo dove ancora domina la vecchia idea di scuola centrata su un’idea di valutazione anch’essa distorta. Non è così per tutti, ovviamente, ma alcuni studenti, sì, quelli ostinatamente sicuri che la vittoria sia sempre ottenere il risultato che si vuole. Perché nessuno ha mai spiegato loro che la vittoria troppo spesso è un falso obiettivo, che ci viene imposto da fuori, mentre la cosa davvero difficile è comprendere il nostro vero e sincero obiettivo, il nostro autentico desiderio. Sarebbe uno dei compiti più grandi della scuola, se le si permettesse di svolgerlo.
Non è facile. Perché a distanza, con ritmi che, pur serrati, sono più rallentati di quelli scolastici, sembra di dover inseguire dei mulini a vento; poche volte si riesce ad avere il polso della situazione e si ha l’impressione di avere davanti non un quadro con tanti particolari, ma tanti particolari, frammentati e dispersi, senza un quadro. E come docenti quasi ci sentiamo in colpa per non riuscire sempre a ricomporre l’insieme.