DIARIO DI SCUOLA VI – L’educazione, un sogno di pace

1 febbraio 2021 

DIARIO DI SCUOLA VI

Alessandra Avanzini

e così alziamo i nostri sguardi

non verso ciò che si intromette tra noi

ma verso ciò che sta davanti a noi

Amanda Gorman

L’educazione, un sogno di pace

Mercoledì 20 gennaio ho guardato in diretta l’insediamento del 46esimo presidente degli USA Joseph R. Biden Jr. e mi sono emozionata. E’ una data che non voglio dimenticare. Perché quel discorso era bello, ed era bello perché era onesto, era onesto perché esprimeva la gioia di appartenere a un popolo, quello americano,  e di appartenervi con orgoglio e con dolore, per gli errori fatti e subiti, per la presa d’atto che è necessario ripartire di lì, dalla consapevolezza di essere un popolo dalle mille contraddizioni, ferito quasi a morte da una violenza incomprensibile e ingiustificabile eppure pronto a non chiudere gli occhi, ma a guardarla e ad accoglierla come parte di sé per trasformarla o trasfigurarla in crescita e cambiamento. 

È un discorso giovane nel cuore e capace di costruire la speranza di un mondo migliore, è un discorso responsabile perché abbiamo subito realizzato che non erano parole al vento, perché subito dopo Biden ha dato seguito alle parole con le azioni, con i primi 17 atti mirati a smantellare l’era Trump, la follia di questi ultimi quattro anni che stavano trascinando nel baratro la più grande democrazia del mondo. Da questo sconvolgimento, con un culmine nella terribile giornata del 6 gennaio con gli atti di Capitol Hill, abbiamo capito, dice Biden, che la democrazie è fragile, ma abbiamo anche capito che è preziosa e tutte le forze devono andare nella direzione di difenderla. Ma difenderla significa prendere atto che la democrazia ha bisogno di unità, e questa parola è stata ripetuta quasi come un basso continuo, dolcemente martellante, quasi perché il nostro orecchio lo facesse proprio, in uno slancio che ha l’urgenza di essere vero. E’, quella proposta, un’unità che si struttura nella diversità, che supera il razzismo, la violenza e l’incapacità di trovare un accordo civile rispettandosi anche laddove l’accordo non si trova, è un’unità che tiene conto dei punti di fragilità e di forza e si struttura su quelli, senza chiudersi gli occhi di fronte alla realtà, ma forte ad inseguire un sogno. Una unità che si radica nel passato, fa presa sul presente per cambiarlo e poter costruire un futuro, che è già presente come sogno, perché, se non sapesse esserlo, se non si imponesse come intangibile illusione, o forse auto-illusione, non potrebbe mai diventare futuro. E questo è il punto di forza. Costruire l’idea, davanti a noi, perché possa entrare dentro di noi, di ciò che potrebbe essere, prendendo atto di ciò che è.

Mi sembrava quasi di aver davanti la magica costruzione utopica di Tommaso Moro, non per quello che ha saputo effettivamente sognare, ma per averci insegnato a sognare – che non significa chiudere gli occhi alla realtà, ma che al contrario significa guardare questa realtà in faccia, prendere atto che non ci piace, non la vogliamo più così come è, e costruirne l’idea, quella che vogliamo, quella che desideriamo, nella nostra mente, per avere quindi il coraggio, la forza e lo slancio di inseguirne la realizzazione nel mondo.

Io ho visto in atto quello che per me è l’atto educativo, lo strutturare la forza di utopia attraverso parole che sappiano diventare un ponte con i ragazzi per aprire, con noi, docenti, e tra di loro, un dialogo e alimentare lo slancio e la voglia di un futuro, senza arrendersi a nessun dato di fatto presente che voglia imporsi come evidenza insuperabile. 

Ho visto questo, ciò che per me è il senso profondo dell’educazione, questo qualcosa che è contagioso e che si chiama unità eppure vive di differenza, che ci invita ad alzare lo sguardo verso il cielo e a dimenticare la distanza fra di noi perché l’obiettivo è ciò che sappiamo porre davanti al nostro sguardo, senza lasciarci fermare da quella realtà che sempre e inevitabilmente cercherà di costruire barriere, mura e ostacoli.

Al di là dunque del volto politico, sono rimasta incantata da una parola che doveva parlare a tutti e farsi capire da tutti; e poteva farlo usando una banale retorica, poteva essere pura demagogia, poteva essere tante cose, ma alla fine ha saputo rinnovarsi al punto da camminare dentro la storia proiettandosi oltre la storia stessa, verso ciò che ancora non è, ma che potrebbe essere. E ci ha convinto che ci può essere. Se abbiamo il coraggio di crederci. 

Amanda Gorman, giovane ragazza di colore, poetessa laureata, ha svolto il suo ruolo ufficiale, intrecciando le proprie parole e le proprie idee a quelle del presidente, offrendone una visione poetica, e dunque ancora più proiettata nell’oltre di ciò che potrebbe essere, nella dimensione del sogno che tutti possiamo autonomamente e liberamente sognare.

Anche in questo caso, la retorica è scivolata via, e ciò che più colpisce è un ritmo che ripercorre quanto abbiamo appena sentito scandito con decisione e commozione e semplicità, ma lo trasforma quasi in un canto, e subito la dimensione si dilata, l’orizzonte si apre, e sembra quasi che quel canto sia in grado di correre libero in ogni angolo, citato, dell’America intera, e in tutto il globo (“lasciamo che sia il globo, se nessun altro, a dire che è vero”), quasi come una cassa di risonanza a far risaltare tutto ciò che abbiamo appena sentito e a toglierci ogni dubbio che sta per accadere. E avrà forza. E sarà decisivo. E saprà trasformare il mondo e noi stessi. E noi ne saremo i protagonisti. Saremo noi il cambiamento.

L’effetto è straordinario. L’incantesimo è aperto. E questa nazione che sa rappresentarsi in questo modo, ha ben ragione Amanda Gorman, “non è spezzata, è soltanto incompleta”.

Come ogni essere umano, ha bisogno di crescere. Ma un paese per crescere ha bisogno di coloro che lo abitano, di ognuno di loro, e per un contagioso effetto di speranza di ognuno di noi. Da ogni angolo del mondo. 

“Quando arriverà il giorno cammineremo fuori dall’ombra

col cuore in fiamme e senza paura

la nuova alba splenderà e saremo noi a liberarla

perché c’è sempre luce

se solo siamo coraggiosi abbastanza

da saperla vedere

se solo siamo coraggiosi abbastanza

da saper essere, noi stessi, quella luce”

Sembra di vedere Adamo ed Eva che, mano nella mano, camminano la loro strada solitaria, walk their solitary way, una volta usciti dal paradiso terrestre rappresentato da John Milton; il paradiso è perduto, l’illusione di un mondo perfetto non c’è più, ma c’è la forza di un mondo imperfetto, forse, sbagliato, sicuramente, pieno dei nostri errori, ma dentro al quale abbiamo la possibilità di essere felici se solo camminiamo insieme.

La democrazia americana è ancora viva, allora. Ferita, dolorante, ma viva. Ma quelle parole valgono per tutti. Io ho visto in quella cerimonia in controluce una sfida educativa lanciata non solo all’America, ma al mondo intero. Per cambiare è necessario che ognuno di noi accetti la sfida di cambiare se stesso, altrimenti non andiamo da nessuna parte. È necessario che quel sogno sappia essere il sogno di ognuno di noi. 

A questo punto è necessario anche esplicitare qual è questo sogno.

È, semplicemente, un sogno di pace.

Il più grande sogno educativo, la vera sfida sottesa a ogni faticoso percorso educativo. Che contiene il rispetto dell’altro e di se stessi. Così come anche il nostro legittimo diritto alla felicità.