Rosella Brozzi, La mia scuola in Venezuela

Viaggio a Caracas, 1986. Da sx a dx: Maria Carolina (che ora vive in Florida, il papà e il nonno paterno sono nati in Venezuela… ma in famiglia si racconta che gli antenati sarebbero… pirati!); Suet Yee (che vive in California ed è di origini cinesi); Maria Josefina (che abita in Canada ed è di origini siciliane); Carolina (che abita in Libano da dove arrivano i suoi genitori) e io, naturalmente (quella seduta davanti)!

Mi chiamo Rosella Brozzi e sono nata l’8 gennaio 1975 a Maracaibo (Venezuela). Essendo il papà italiano emigrante e la mamma originaria di un piccolo paese sulla costa ovest del paese, ma cresciuta a Valencia (a 500 km da Maracaibo), abbiamo vissuto lontano dalle famiglie di origine e così abbiamo in un certo senso adottato i nostri vicini di casa, con cui abbiamo condiviso tante feste, tanti bei momenti; con alcuni siamo ancora in contatto. Siamo tre sorelle e in casa avevamo quattro camere da letto, ma una era sempre libera per gli ospiti. La mia casa era sempre aperta, ospitavamo sempre qualcuno, a pranzo, a cena, oppure anche ospiti di passaggio. Il mio papà ha fondato un’industria e per farlo ha usufruito di aiuti statali; ma per questo ha dovuto rinunciare alla cittadinanza italiana. Quando si è sposato, però, era ancora cittadino italiano, così la mamma ha preso da lui la cittadinanza e noi l’abbiamo poi presa da lei. Quindi siamo potute tornare più tardi in Italia come cittadine italiane.

Nella mia infanzia ho fatto tantissime attività extracurricolari perché papà voleva che provassimo tante attività, tra cui lo sport e che ci rinforzassimo anche nella difesa; e così mi muovevo tra la danza classica, il karate, il basket, la pallavolo… Ho studiato molto le lingue: siccome la scuola finiva il venerdì, il sabato frequentavo con mia sorella maggiore Rossana la scuola di inglese al consolato americano. Ho frequentato anche il corso di italiano al consolato italiano perché papà aveva in mente di tornare in Italia prima o poi.  E così abbiamo fatto nel 1992, dopo il primo colpo di stato di Chavez.

Però per frequentare l’università italiana servivano 13 anni di scuola, così ho frequentato un anno in una scuola internazionale in Svizzera. All’università ho iniziato chimica industriale; poi, dopo 3 anni, ho deciso di spostarmi a Scienze delle tecnologie alimentari che era la cosa che mi interessava di più, ma la facoltà era a Reggio Emilia, dove mi sono laureata nel 2000. Ho fatto una tesi sulla Parmalat e lì ho iniziato a lavorare. E’ stata una scuola di vita perché ho capito cosa non volevo fare! Non mi piaceva, non era il mio modo di concepire il lavoro, non era un luogo meritocratico, così dopo 3 anni ho deciso di mollare. E ho deciso che mi sarebbe piaciuto lavorare in un ambiente multiculturale, come quello dove ero cresciuta, e siccome nel frattempo l’agenzia europea per la sicurezza alimentare (EFSA) era stata destinata a Parma, lavorare in EFSA è diventato il mio obiettivo. 

Mi sono iscritta a un master sulla legislazione europea per la sicurezza degli alimenti; alla fine del master ho fatto domanda in Commissione europea: c’era un bando e sono stata presa per lo stage finale. Sono entrata nella Commissione alla Direzione generale “Salute e sicurezza del consumatore” nell’unità che gestiva i rapporti con EFSA. Sono partita per Bruxelles nel 2004 e tornata a Parma nel giugno 2007. Da allora lavoro a EFSA, nell’unità che gestisce le application sugli additivi utilizzati in nutrizione animale: tutti i prodotti che vengono messi nel mercato europeo devono subire un processo di autorizzazione e noi facciamo la valutazione scientifica sulla sicurezza e sull’efficacia di questi additivi. Poi la commissione, sulla base dei nostri pareri, decide se autorizzarli o meno. 

Mi trovo veramente in un ambiente europeo che sento mio, è un incontro continuo con il diverso. Parlo inglese e spagnolo (quando ero in commissione anche francese). Lavoro dietro a un computer anche se pensavo che non l’avrei mai fatto… eppure è bellissimo perché gestisco gruppi di esperti e uniamo le forze: esperti di tutta Europa e anche da Oltreoceano si mettono intorno a un tavolo e discutono sui dossiers prodotti dalle aziende. Per me è molto interessante sentirli, imparo tantissimo ogni giorno e questa è la cosa che mi piace di più. Convivo con il mio compagno e ho quattro nipoti dalle mie due sorelle.

Credo che le mie più grandi fortune siano state nascere in una famiglia mista, con in serbo un immigrante e piena di curiosità, ed in un posto che è un vero melting pot, conoscere gente da tutto il mondo ed essere stata presa in quello stage in Commissione europea dopo il master. Sono molto severa con me stessa e sono felice perché tutto quello che ho me lo sono guadagnato da sola; e ne sono fiera.

Credo che la mia esperienza scolastica mi abbia aiutato molto ad arrivare fino a dove sono oggi…

A Maracaibo ho frequentato tutta la scuola dell’obbligo. I miei ricordi di scuola sono bellissimi: ho studiato in una scuola privata e all’epoca c’era una grande differenza tra il pubblico e il privato, infatti la maggior parte delle scuole private era di buon livello, in certe zone invece il livello della scuola pubblica era molto basso. Per questo mio papà ci ha iscritto ad una scuola di suore spagnole del filone diciamo gesuita, però in versione femminile, si chiama Compagnia del Salvador; era una scuola solo per ragazze, la Scuola Mater Salvatoris. Una cosa particolare in Venezuela  è che si fa tutto il percorso scolastico nella stessa struttura. Io sono entrata in quella scuola a 10 anni, perché ho cambiato, ma ho compagne di scuola che sono entrate lì a 3 anni e ne sono uscite a 18!

Quando sono arrivata in Italia ho notato una cosa molto differente con la mia scuola che ho frequentato, e mi ha colpito molto, e cioè il fatto che Maracaibo è un melting pot, c’erano tutte le lingue, le razze, le nazionalità; invece, quando sono arrivata qua, non c’era traccia di questo mescolamento; io avevo in classe europei, spagnoli, croati, ma avevo anche cinesi, cubani, peruviani…. Eravamo veramente una società multietnica: il Venezuela ha attirato moltissimi emigranti europei, asiatici, arabi, soprattutto per la presenza del petrolio (e infatti adesso che purtroppo il Venezuela è messo come è messo sono venuti via!); per questo io ho amici in tutto il mondo. Siamo davvero ovunque e così quando viaggio vado a trovare amici in tutto il mondo. Essendo cresciute insieme abbiamo poi un legame fortissimo; ad esempio con quelle tra noi che siamo in Europa ci troviamo sempre almeno una volta l’anno e ci sentiamo spessissimo.

Tornando al sistema scolastico venezuelano: noi abbiamo 2 o 3 anni di preescolar, la scuola materna, poi all’inizio erano 6 anni di primaria e 5 anni di liceo, ma quando io ho finito, hanno cambiato e hanno fatto una lunga scuola primaria fino al nono anno e poi due di secondaria. La lingua ufficiale è lo spagnolo, ma anche l’inglese si studia molto, perché l’influenza americana è forte e noi avevamo insegnanti madrelingua.

Come materie di studio, la primaria è uguale per tutti fino alla fine, invece nei due anni di secondaria dovevi scegliere tra indirizzo scientifico e indirizzo umanistico.

Nello scientifico si studiavano materie come fisica, chimica, matematica, scienze della terra, geografia economica, psicologia (non filosofia, che era presente solo nell’indirizzo umanistico), inglese, letteratura spagnola, storia; invece nell’umanistico si studiava francese, latino, storia dell’arte, filosofia, letteratura spagnola; non si studiavano né fisica né chimica. Chimica, fisica e biologia erano presenti nel sillabus di primaria solo al nono anno, alla fine del quale si doveva scegliere l’indirizzo da seguire nei due anni di liceo.

Carnevale di carta, anno 1989. Io vestita da geisha. Dovevo indicare a quelle sotto il drago come sfilare!

La nostra scuola non era un collegio, si andava a casa dopo la scuola; l’orario era uguale per tutti, dalle 7.15 fino alle 13 perché il Venezuela è sull’equatore, c’è lo stesso clima tutto l’anno e fa molto caldo; quindi la vita in generale comincia molto presto e si interrompe a pranzo. Il calendario è più simile alla scuola italiana che non a quello delle scuole europee. Infatti la scuola primaria inizia metà settembre e finisce a giugno. La secondaria va da ottobre a luglio. Come vacanze abbiamo 3 settimane a Natale, un weekend a carnevale (perché laggiù il carnevale è una festa molto sentita) e una settimana a Pasqua.

Facevamo 8 ore di lezione con una pausa, che veniva chiamata il recreo, la ricreazione, più lunga al primario (30 minuti) e nel secondario durava forse 20 minuti. Era una scuola molto severa, le suore erano molto severe eppure io ho dei bellissimi ricordi. L’insegnamento era veramente molto valido e così la scuola aveva un’ottima fama.

Il sistema educativo venezuelano è molto calcato su quello americano, dove tutte le verifiche, i test erano scritti, si studiava di più puntando sulla memoria che non sul ragionamento; questa è una cosa che ho notato quando sono arrivata qua in Italia: all’università ti facevano ragionare sulle cose più che impararle a memoria e per me è stato un passaggio non semplice, un passaggio di metodo. Il nostro sistema essendo, appunto, strutturato sul modello americano era però molto influenzato dal sistema spagnolo che avevano portato le suore. Era una specie di ibrido tra sistema spagnolo e quello americano.

Pensandoci, credo che un’insegnante in particolare, la signora Panek, la nostra maestra di spagnolo, abbia disegnato di fatto l’educazione primaria sul modello spagnolo. La signora Panek era una signora spagnola, catalana, di una sessantina d’anni ed era il punto di riferimento della scuola primaria; usava metodi nettamente diversi rispetto agli altri insegnanti più giovani laureati in Venezuela. Per fare un esempio, lei teneva tantissimo alla calligrafia, e ci faceva fare tantissimi esercizi, anche durante l’estate.  Infatti la calligrafia delle ragazze del Mater era riconoscibilissima, scrivevamo tutto in corsivo e molto rotondo, in modo molto armonico direi. Insegnarci la calligrafia era anche insegnare un metodo e un atteggiamento di studio e di comportamento: ai tempi, in primaria, in un certo anno si passava dalla matita alla biro e proprio in quel periodo era venuta fuori una biro con la gomma che cancellava perfettamente l’inchiostro. Ma nella nostra scuola quella biro, che trovavi ovunque, ed era molto di moda, era vietata, perché la filosofia era che dovevamo essere concentrate e precise fin dal primo scarabocchio, che non facessimo le cose a caso, a tentativi, ma che fossimo assertive e concentrate, il più brave possibile fin dalla prima volta che scrivevamo qualcosa. Anche il bianchetto, quando è arrivato, è stato vietato.

Quindi quel sistema educativo era un po’ ibrido perché la maggior parte del personale era venezuelano, composto di docenti laureati in Venezuela, abbastanza giovani, ma la concezione, il fulcro, chi aveva disegnato tutto era spagnolo e aveva lasciato una impronta molto forte nonostante dovessimo seguire le direttive venezuelane: sicuramente la storia e la cultura spagnola ha influenzato il modo di insegnare e il pensiero dell’educazione delle ragazze in quei tempi.

Un altro esempio è che la signora Panek teneva molto anche all’ortografia; la sua pronuncia spagnola ci aiutava tantissimo, devo dire. Infatti la pronuncia spagnola è molto diversa dal venezuelano dove invece s, c e z si confondono, non si percepisce la differenza. Loro distinguono molti suoni che noi non distinguiamo più, come la c, s e z, la y e la doppia l, la v e la b,… Quindi fare un dettato con la signora Panek o con una maestra venezuelana era completamente diverso per noi; era molto più facile con la signora Panek perché pronunciava ogni lettera alla spagnola e capivi la differenza, ed era più facile da scrivere. Con la nostra pronuncia, invece, devi andare a memoria.

Insomma, le ragazze del Mater si distinguevano anche perché avevano calligrafia e ortografia ottime!

La signora Panek con le sue idee e i suoi metodi ha segnato tutte, e noi la ricordiamo con tantissimo affetto. E’ morta non tanto tempo fa ed è quella figura di insegnante che lascia il segno. 

Inoltre, altra cosa per spiegare il nostro sistema ibrido è che in quello anglosassone è tutto scritto, mentre noi qualche interrogazione la facevamo; gli ultimi due anni dovevamo scrivere una piccola tesi, ed esporla. Facevamo presentazioni davanti a un piccolo pubblico, insegnanti, genitori, era un festival della scienza dove preparava un poster per far vedere il lavoro fatto e lo si spiegava.

Cos’altro? Allora la scuola era diretta da suore, che gestivano la scuola e insegnavano religione. Poteva capitare che una suora insegnasse anche un’altra materia, nel caso fosse una insegnante qualificata; ad esempio noi avevamo una insegnante suora che ci insegnava matematica e fisica perché appunto era laureata in quelle materie.  

Però sicuramente l’educazione religiosa era importante, ma non opprimente. C’era la messa il primo venerdì del mese, e poi prima della lezione di inglese e di quella di spagnolo si recitava l’Ave Maria (in inglese o in spagnolo a seconda della lezione).

Come ho detto ho ricordi bellissimi, perché la scuola era severa sì, ma non ingiusta. Alla materna, che io ho frequentato da un’altra parte, ma simile è il sistema, si imparava giocando.

Di solito si imparava a leggere e scrivere in prima elementare, io ho imparato prima da mia mamma intanto che insegnava a mia sorella maggiore, quindi prima! Normalmente si gioca e poi diventa più seria, quando appunto arrivi alla primaria.

Non esistevano punizioni corporali anche se le suore erano severe e ci tenevano al fatto che fossimo corrette.

A questo proposito mi ricordo un aneddoto; ero in terza elementare, avevo otto o nove anni, e avevamo una maestra di spagnolo che  quando si arrabbiava era volgare, usava slang e ci faceva ridere! Così le più furbette facevano di tutto per farla arrabbiare e sentire il suo slang forte… Un giorno, proprio per farla arrabbiare, abbiamo strappato i quaderni e coperto tutto il pavimento della stanza di carta.. Lì ci hanno punito, ci hanno fatto pulire tutta la stanza, i corridoi… insomma erano punizioni di questo tipo! Oppure potevano impedirti di partecipare ad una cosa bella cui tenevi…

Mi ricordo un’altra volta un gruppo di ragazze hanno fatto questo gioco. Siccome avevano le scarpe coi lacci, si sono legate le scarpe e camminavano legate, ma una di loro è caduta e si è fatta male. Le suore allora hanno punito questo scherzo con 20 giri di campo da basket con scarpe legate davanti a tutti!

Insomma erano punizioni severe ma non traumatiche.

Devo dire che comunque incutevano timore, avevano quello sguardo molto severo che ci gelava: c’era molta disciplina!

Infatti mi ricordo che quando siamo arrivate in Italia e mia sorella piccola ha iniziato qui alle scuole media, mia madre ha notato la grande differenza, qui c’è meno disciplina! Noi diamo del lei, ci alziamo in piedi quando entra l’insegnante, ma è anche una cosa secondo me di cultura, io do del lei a tutte le persone più anziane, ai genitori dei miei amici, ai professori, insomma è nel mio modo di fare. Non mi viene di dare del tu.

Quanto alla competizione tra noi, secondo me non c’era una competizione negativa, ma solo positiva, non si facevano differenze, ma si stimolavano tutti, se volevano, a raggiungere il massimo.

Le suore poi avevano questa concezione educativa, non volevano fossero fatte differenze: non si potevano portare gioielli, avevamo una divisa, le scarpe erano identiche. Non potevamo avere niente di vistoso tra i capelli.

La scuola era privata e costosa e quindi si cercava sempre di pagare gli studi alle ragazze che non potevano permettersi di pagare le rate. 

Quindi nessuna differenza a livello diciamo visivo, ma nemmeno da ogni altro punto di vista: veniva premiato chi era più bravo, ad esempio a fine anno si davano diplomi a chi era il migliore della classe, al migliore sportivo, nelle lingue ecc.. ma non vi erano elenchi che esponessero una graduatoria dal migliore al peggiore, come ho visto capitava invece nella scuola che ha frequentato Tita! (dott.ssa Kaihura, ndr)

Ho un altro ricordo, molto bello, su questa cosa della competizione… Quando sono entrata, in terza elementare, la signora Panek mi ha fatta sedere di fianco alla prima della classe, Sila, una ragazza ebrea, l’unica ebrea nel nostro anno (forse anche della scuola insieme a sua sorella?), non ha avuto vita facilissima, ma era molto apprezzata! Sila era la migliore e l’idea delle suore era che lei aiutasse le nuove arrivate. Proprio perché il livello era molto alto rispetto alle altre scuole e non era facile inserirsi subito. Poi in realtà io sono sempre stata una secchiona e in poco tempo sono diventata io la prima della classe! Con Sila siamo amiche e me lo dice sempre quando ci sentiamo che le ho tolto il posto della prima della classe! Insomma, questo per darti l’idea che non si facevano differenze ma lo scopo era aiutare tutti e portare su chi aveva la voglia e la capacitò di andare su.

Se ci ripenso, la scuola era davvero bellissima anche perché facevamo un sacco di attività, sport, pallavolo, pallacanestro… poi c’era un coro, gruppi di teatro, scuole di arte, e il catechismo. Io ad esempio facevo volontariato per la scuola e andavamo ad insegnare in scuole pubbliche nelle zone povere della città. Era molto bella anche questa esperienza di volontariato: noi insegnavamo catechismo in queste scuola, solo catechismo anche perché erano scuole con i loro insegnanti. Però ricordo che ci ha scioccato vedere la differenza, a volte dovevamo leggere tutto noi perché i  bambini facevano fatica a decifrare, imparavano a memoria, ma faticavano a leggere e scrivere. La differenza con la preparazione offerta dalla nostra scuola era abissale: questi bambini facevano quasi fatica a parlare spagnolo, mentre noi parlavano già in due lingue, inglese e spagnolo.

Il nostro drago cinese di carta durante la sfilata. Con il drago abbiamo vinto il primo posto.

Poi c’erano alcune attività extracurricolari molto divertenti e che ricordo con gioia. Ad esempio si faceva il carnevale di carta: tutte le classi facevano un vestito di carnevale di carta poi si faceva la sfilata il giorno di carnevale. Abbiamo fatto un drago cinese e altre cose meravigliose.

Era una cosa molto sentita.

A Maracaibo, poi, la festa della patrona è il 18 di novembre e si chiama la Feria de la Chinita e una musica molto tipica è la gaita. In quel periodo, così, si faceva nella scuola un concorso di gaitas: noi dovevamo comporre una gaita e cantavamo e ballavamo la canzone che avevamo composto. Musica infatti era una materia presente in tutto il sillabus della primaria, fino al nono anno. Avevamo una preparazione musicale e scrivevamo canzoni semplici,  le scrivevamo noi. I più grandi anzi erano proprio stimolati a comporre. Suonavamo percussioni chitarra tipica nostra (‘cuatro’, perché ha solo quattro corde) e cantavamo.

Carnevale di carta, anno 1991. Motivo: I pierrots

C’erano poi due festival, quello dei bambini e dei grandi.

Un altro ricordo bellissimo è legato alle attività extracurricolari di sport. Io giocavo a basket e in secondaria abbiamo avuto come allenatore il viceallenatore della scuola di basket di Maracaibo e ha deciso di farci fare una partita con la squadra ufficiale! In Venezuela il basket era molto importante e quindi il livello molto alto: è stata una cosa buffissima, una partita con questi giganti, per dare un’idea sarebbe stato come qui a Parma giocare con il Milan o il Parma. Però è stato bellissimo.

Quando poi arrivavi in fondo alla secondaria dovevi sostenere un esame che era uguale in tutto il Venezuela e si svolgevano nello stesso giorno; era scritto e durava due ore. Era un esame di stato e veniva distribuito dai militari, addirittura avevamo i militari che ci sorvegliavano! In tutto il percorso scolastico non vi erano altri esami, solo questo.

Finito quell’esame a seconda del punteggio potevi avere accesso all’università. L’università più ambita era quella pubblica: se avevi il punteggio più alto, così, normalmente sceglievi la pubblica. 

Quindi, solo un esame finale in tutto il percorso scolastico,  però se non avevi la sufficienze in due materia dovevi andare a settembre.

Le scuole pubbliche, anche se erano di basso livello, non facevano così fatica a piazzare studenti all’università  perché c’era il rovescio della medaglia… è vero, infatti, che il nostro livello era molto alto, ma poi i voti erano più bassi rispetto alle altre scuole proprio perché era molto più difficile. E il sistema funzionava così: veniva fatta la media tra i voti ottenuti alla fine dell’anno scolastico e quello ottenuto a fine dell’esame… Così, facendo la media, alla fine la differenza si compensava! Il nostro sistema di voti era su 20, con 10 passavi, un 18 da noi era una sfida, in un’altra scuola era invece molto più semplice essere ammessi con voti alti a quello stesso esame.

Se poi avevi un punteggio complessivamente alto eri ammesso all’università e potevi partire già dal primo semestre, cioè da ottobre, se era più basso dovevi aspettare il secondo semestre.

Io ho fatto l’esame, sono entrata nel primo semestre, ma siamo venuti via tutti e quindi poi ho frequentato in Italia. Mio papà infatti voleva farci venire via a studiare in Italia perché c’erano già state avvisaglie che le cose non andavano bene. Lui ha venduto la fabbrica e ha mandato mia sorella più grande un anno prima in Inghilterra; quando io ho finito siamo venuti via. Mia sorella piccola ha studiato qui dalla prima media. 

Io ho fatto un anno di una scuola in Svizzera alla scuola internazionale Surval a Montreux, sia perché ero molto piccola, avevo finito la scuola a 17 anni (perché sono di gennaio), sia perché dovevo avere un anno in più di secondaria per essere ammessa all’università italiana e poi… mi sono presa un anno per riprendermi. Il passaggio non è stato semplice, i primi anni di università li ho patiti, un’altra lingua, un altro sistema, un altro paese, insomma tutto diverso… E stata dura, specialmente a chimica perché tutti i miei compagni erano più avanti di me (alla fine avevano fatto due anni di scuola in più), poi era tutto molto teorico, astratto, ed io ero abituata invece a vedere i frutti del lavoro subito. Infatti i primi anni sono stati davvero frustranti. Poi dopo avere cambiato a Scienze e tecnologie alimentari invece ho cominciato a godermi anche finalmente lo studio, forse perché in parte avevo imparato il sistema di studio, ma anche perché le materie hanno cominciato ad essere più concrete, con più appigli alla realtà, insomma a mio modo di vedere più interessanti. E così nel 2000 mi sono laureata con 108 per la gioia dei miei e anche la mia!