No, grazie ma da una scuola così non vogliamo essere formati

No, grazie ma da una scuola così non vogliamo essere formati

Alessandra Avanzini

Stamattina in classe ho pensato di dedicare l’ora a parlare un po’ insieme, ad avviare una discussione sul luogo in cui quotidianamente viviamo, la scuola. Così siamo andati sul sito del Miur, abbiamo aperto il documento Linee programmatiche del Ministero dell’Istruzione, abbiamo iniziato a leggerlo e a commentarlo, frase per frase. E ci siamo rimasti tutti molto male. Per tutto quello che la scuola non è, per tutto quello che la scuola vorremmo che fosse. La scuola, possiamo dirlo?, siamo noi, docenti e studenti e qualche parola vorremmo avere la possibilità di dirla.

Comunque, abbiamo iniziato a leggere e ci siamo subito preoccupati, o meglio prima abbiamo detto che bello, riforma, la scuola cambierà, poi ci siamo detti, sì, ma bisogna vedere come. E il sospetto è cresciuto subito dopo, la scuola “motore del paese”, ma in che senso? Non è un po’ troppo generico senza spiegare cosa fa muovere? Si parla di “fase costituente”… Sembrano grandi intenzioni, ma forse un po’ troppo serie, mi viene da dire, forse un po’ troppo azzardate: ma prima di agire prof non bisogna avere un’idea chiara in mente? Io lo dico loro ogni giorno, qui invece si parte dal fare. I sospetti crescono.

Sì, crescono perché subito dopo leggiamo “la scuola è il luogo dove si costruiscono le competenze e si acquisiscono le abilità; sono questi i presupposti per diventare cittadini preparati, critici e partecipi”. Ci aspettavamo un’altra parola, cultura, e anche un’altra, formazione, e un’altra ancora, umanità. Ci aspettavamo uomini, e invece troviamo cittadini.

Ma prof, cittadini dipende un po’ da che Stato; perché se fossimo in uno Stato totalitario… Io preferisco pensare di avere formata una mente libera e critica per poter vedere i problemi, per poter difendere le mie posizioni, per poter scegliere, aggiunge un altro, è così difficile capire cosa si desidera, prof.

Sono pienamente d’accordo, come si può portare nel mondo un proprio contributo, se coltiviamo solo il fare, la tecnica ed eseguiamo opere secondo idee pensate da altri? La nostra visione, il nostro io, ciò che pensiamo è destinato a svanire dietro progetti altrui. E poi prof, se impariamo a pensare, a comprendere il nostro punto di vista e a saperlo esprimere, possiamo di conseguenza anche avere un ruolo nella società. Infatti, e magari non camminare soltanto su binari già costruiti, rigidi, ferrei e inaccessibili.

Proseguiamo e la logica salta, faccio fatica a capire; le frasi si giustappongono e mi pare sarebbe necessario ribaltare il discorso. Ma lasciamo perdere le finezze e andiamo oltre: “bisogna patrimonializzare l’esperienza vissuta e, in modo particolare, ciò che gli insegnanti hanno sperimentato in fase emergenziale e le molteplici innovazioni che ne sono derivate”. Ci fermiamo perplessi. Ma che parola è ‘patrimonializzare’? Rendere patrimonio. Non ce la togliamo più di torno la dad prof! Ma non potremmo considerarla una bella parentesi, e sperare che non ricapiti più? Vorremmo salutare la dad come una necessità che ci ha aiutato, tutto sommato, però è costata fatica, è stata brutta; insomma, basta così grazie. E poi perché usare una parola così brutta come ‘patrimonializzare’? Ha a che fare con il mondo economico, e poi oltretutto sposta l’idea di patrimonio su questa dad e fa veramente venire i brividi – patrimonio di solito lo si lega a un’idea di belle cose culturali, artistiche da tenersi strette, magari è una parola un po’ statica, un po’ ammuffita, poco relazionale, ma ci parla di noi, della nostra storia. Patrimonio e dad proprio non stanno insieme. E preferiremmo nemmeno darle vita, a questa associazione. “Le molteplici innovazioni che ne sono derivate”: porto l’attenzione dei ragazzi su questa parte del discorso. Che innovazioni? Abbiamo innovato qualcosa? Abbiamo fatto dad, prof. Eh appunto. Che non è che sia stata proprio una innovazione, è stata una fatica, è stata disarmante con certi studenti, è stato uno sforzo per cercare di bucare lo schermo in tutti i modi possibili, per incontrarci, ma sempre con l’auspicio di ritornare alla normalità. Che significa scuola in presenza. Qui possono arrivare le innovazioni e ancora una volta tutto ciò che è innovativo arriva da un’idea, non da una tecnica.

La studentessa continua a leggere: “l’ampliamento dei servizi è finalizzato ad innalzare i risultati educativi degli studenti, ma anche ad allineare i percorsi agli standard formativi internazionali e alle esigenze del mercato del lavoro”. Qui ci siamo anche un po’ offesi: cosa significa innalzare i risultati educativi? Cosa sono ‘i risultati educativi’? I risultati scolastici, forse, i risultati didattici, forse, ma educativi? Esiste un ‘risultato educativo’? E come si ‘misura’ o come si valuta? Rimango perplessa e sono in seria difficoltà perché quello che mi trovo davanti ad ogni riga di più è un linguaggio confuso che di educazione non porta traccia. Prof ma la parola cultura non è ancora arrivata! È vero, la stiamo aspettando, stiamo contando le righe. Siamo alla ventisettesima, ancora niente. È arrivato un ‘educativo’, appunto, ma ci pare fuori luogo, svuotato del suo significato. Ma l’offesa è qui, in questa frase: “allineare i percorsi agli standard formativi internazionali”. Quindi educativo è diventato formativo, i percorsi (che percorsi?) si devono allineare a degli standard? Internazionali? Ma la scuola prepara a uno standard?

Ma la scuola non è il luogo dove si costruiscono menti creative, libere, capaci di pensiero critico, come può esserci uno standard? La scuola allora prepara al conformismo? Il sospetto si fa ancora più grande, ma siamo un’azienda prof? E a confermare il sospetto “allineare… alle esigenze del mercato del lavoro”. Ma noi non veniamo mica a scuola per entrare nel mercato del lavoro! Noi siamo qui per formarci come persone, come esseri umani, per avere una cultura, per capire chi siamo, cosa vogliamo. Mercato del lavoro. Questa è davvero difficile da mandare giù.

Non siamo d’accordo, questa non è la nostra scuola. La nostra scuola è fatta di cultura, di libri letti per il piacere di leggere; prof a questi qui non gli hanno mai fatto leggere un libro al mese! Stoccatina alla prof, ma sono orgogliosa di averglielo fatto fare, un libro al mese sono parole che entrano nel cuore e nella testa, al di là di questo vuoto tecnicismo, al di là delle pressioni che vorrebbero buttarli al servizio del mondo del mercato e del lavoro, un libro al mese è cultura. E siamo noi, è confronto fra di noi, i nostri pensieri, e magari ci possono anche annoiare questi libri, ma parlano del rispetto che abbiamo l’uno dell’altro come esseri umani.

Mentre parliamo un’altra parte di frase ci stordisce, mi stordisce “ripensamento delle metodologie didattiche in chiave innovativa”. Qui parlo direttamente io, questa proprio non l’accetto ragazzi, ma chi la fa la scuola? Il docente e l’allievo. Esatto. Quindi le metodologie didattiche sono una libera scelta del docente, se le vuole utilizzare, ma la cosa fondamentale è costruire quella relazione, la relazione educativa, che si struttura sul dialogo: questo è lo scopo fondamentale della scuola, arrivare a quella relazione, strutturarla come pensiero e realtà, inseguirne la possibilità, offrirla come strumento di lettura del mondo.  E io come docente voglio essere libero di entrare in una classe, guardare chi ho davanti e iniziare a parlare con questi singoli soggetti, dare forma al nostro incontro. Non voglio essere ‘formata’ a nessuna metodologia, voglio solo avere la possibilità di lavorare serenamente, il tempo per studiare e coltivare nuove idee da mettere in gioco con loro, e anche alla prova, idee su cui discutere e confrontarsi, idee per crescere insieme, io, docente, e loro, studenti. Non servono metodologie didattiche, servono la parola, i libri, il pensiero, e noi.

“La scuola è soggetto deputato a guidare la transizione del Paese verso l’innovazione tecnologica e la sostenibilità ambientale, come leva fondamentale per l’educazione allo sviluppo sostenibile”. Ma cosa vuol dire, penso dentro di me, di cosa stiamo parlando? Prof ma la scuola deve fare tutto? Educazione civica, tecnologia, sviluppo sostenibile? Ma non dovrebbe semplicemente essere scuola? E poi casomai parliamo di ‘consapevolezza ambientale’, ma cosa vuol dire “sostenibilità ambientale”, perché la scuola? Quanto sentiamo la mancanza della scuola, ogni riga di più.

Ma eccoci in fondo, dove si parla di coinvolgimento della “comunità educante”. Ma chi è? Cosa è la comunità educante? Sono tutti, tutti tranne i docenti. Magari anche il Grest, e le associazioni e… E finalmente sulle ultime righe, mentre appare la voce ‘piano estate’ e il terrore negli occhi dei ragazzi, arriva, è lei: appare la parola “cultura”. Per la precisione “culturale” e all’interno di una frase triste “un’estate di risarcimento sociale e culturale”, solo qui, in fondo, come recupero estivo di qualche cosa di cui mai si è sentito il bisogno di parlare in precedenza. Ma noi non vogliamo essere risarciti di niente, noi abbiamo lavorato, e tanto!

Ed è vero, e l’ho già scritto, l’educazione non si recupera, e la cultura è anche questo, tutte le nostre sfide, tutti i nostri dialoghi, in dad e in presenza, e i libri che leggiamo e i no che diciamo ai libri che leggiamo, e i nostri incontri. La cultura è questo, e la rivogliamo protagonista. Noi vogliamo essere protagonisti, di una scuola vera, dove non è al centro lo studente, ma la cultura e la relazione educativa, l’incontro e il dialogo tra docente e studente, una scuola che il nostro pensiero pensa come tale, come momento di crescita. Una scuola dove crescono uomini. E non pensa al mondo del lavoro, ma vive il momento e la gioia della creatività.

Non vogliamo una scuola come quella che leggiamo qui, una pseudo-scuola del fare, che esclude cultura, uomini, docenti e studenti, per metterli al servizio del mondo del lavoro e del mercato; ecco, di questa scuola-azienda, non abbiamo alcun bisogno.

E no, grazie, da questa, che scuola non è, non vogliamo essere formati, nemmeno io come docente voglio essere formata per questo strano ibrido. Io mi formo con i ragazzi che incontro, nel dialogo con loro, e con i mei libri. Liberamente, senza inseguire il mercato, le tecnologie, e nessuno standard. Inseguendo invece la nascita di un’idea, cercando di costruire ogni giorno di nuovo per me, e di offrire loro gli strumenti per capire chi siamo e cosa sogniamo.